La stabilità in Afghanistan serve a gran parte dei Paesi stranieri interessati alle sorti Stato nel cuore dell’Asia centrale. Agli Stati Uniti e ai Paesi Nato, che si stanno ritirando dopo una presenza lunga 20 anni e che rimangono però stretti alleati del governo di Kabul, seriamente minacciato dalla costante e apparentemente inarrestabile avanzata talebana in tutto il Paese, ma anche ad altri attori che nel Paese non hanno avuto storicamente un’influenza così profonda e che oggi nutrono interessi economici. Uno su tutti la Cina. Ed è anche per questo che il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha affermato che il coinvolgimento della Cina nei negoziati con i Taliban sul futuro dell’Afghanistan può essere “una cosa positiva”, commentando l’incontro di ieri tra il ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi, e una delegazione di Studenti coranici partiti da Doha e guidata dal proprio capo, il mullah Abdul Ghani Baradar.
Blinken ha pronunciato queste parole nel corso di un evento tutt’altro che casuale: la sua visita in India, Paese rivale nell’area della Repubblica Popolare. Questo non ha però impedito al membro dell’amministrazione Biden di aprire a un ruolo di rilievo di Pechino se lavorerà per una “soluzione pacifica del conflitto” e un “governo veramente rappresentativo e inclusivo”. Il segretario di Stato ha aggiunto che “nessuno ha interesse in una conquista militare dell’Afghanistan da parte dei Taliban e la rifondazione di un emirato islamico“. Proprio la direzione, però, verso la quale sta andando il Paese: il governo guidato da Ashraf Ghani è già sul punto di cedere, con i militari della coalizione che ancora stanno smobilitando dalle basi sparse per il Paese, tanto che l’esecutivo si è già rivolto ai signori della guerra per creare un’alleanza in funzione anti-talebana che, però, rischia di sfociare in guerra civile. “Più della metà” del territorio afghano è sotto il controllo dei Taliban, fa sapere infatti Zamir Kabulov, rappresentante speciale del presidente russo per l’Afghanistan e direttore del secondo dipartimento per l’Asia al ministero degli Esteri di Mosca, assicurando che la Russia è pronta a “qualsiasi sviluppo”. Oltre a questo, c’è anche che circa l’85% dell’intero territorio afghano non può più essere considerato, a differenti livelli, sotto il controllo dell’amministrazione centrale.
E il messaggio lanciato a Baradar dal governo di Pechino, che ha parlato di “fallimento” della strategia americana, è orientato proprio alla stabilizzazione del Paese. Nel corso della prima storica visita talebana in Cina, il ministro Wang Yi ha condannato il disimpegno americano, considerandolo un rischio per la stabilità regionale: il ritiro delle truppe Usa e Nato dall’Afghanistan “ha in realtà segnato il fallimento della politica americana” e il popolo afghano ha ora “un’importante opportunità per stabilizzare e sviluppare il proprio Paese”, ha detto aggiungendo che “tutte le fazioni dovrebbero unirsi, promuovere il processo di pace per avere risultati sostanziali quanto prima e stabilire in modo indipendente una struttura politica ampia e inclusiva”.
La Cina ha sottolineato di essere il più grande vicino dell’Afghanistan, di cui rispetta “sempre l’indipendenza sovrana e l’integrità territoriale”, aderendo alla non interferenza negli affari interni di un altro Paese e perseguendo una politica amichevole: “L’Afghanistan appartiene al popolo afghano – ha detto stimolando le richieste del gruppo islamista di una non ingerenza esterna negli affari afghani – e il suo futuro e il suo destino dovrebbero essere nelle mani del popolo afghano”. Ma il capo della diplomazia cinese ha anche aggiunto, con chiaro riferimento alle ambizioni di conquista dei Taliban, di sperare che questi mettano “al primo posto il Paese e gli interessi della Nazione”, tenendo “alta la bandiera dei colloqui di pace, stabilendo obiettivi di pace e un’immagine positiva con una politica inclusiva“.
Questo perché la Cina, che sta cercando di mantenere rapporti positivi sia con il governo di Kabul che con i Taliban, avrebbe un grosso vantaggio da una stabilizzazione dell’Afghanistan. Un suo coinvolgimento diretto è improbabile, vista la difficile gestione del dossier uiguro in Xinjang, regione di confine con il Paese dell’Asia centrale, ma un Afghanistan stabile per Pechino si tradurrebbe nella possibilità di sfruttare l’80% dei diritti estrattivi che detiene nel Paese e, soprattutto, di sviluppare la bretella sud della Nuova Via della Seta, verso i porti meridionali del Pakistan sui quali ha già messo le mani da tempo.