Nella sua lunga esistenza Dino Impagliazzo ha compreso che nella vita non conta l’effimero troppo spesso ricercato da tutti. Ma conta la solidarietà, quella autentica, fatta nel nascondimento, che sgorga dal cuore. Da un cuore nobile perché genuino come quello di questo grande uomo, sardo di nascita, ma romano di adozione, che si è spento all’età di 91 anni. Dino non solo ha compreso tutto ciò, ma, cosa altrettanto non facile, lo ha testimoniato. Con discrezione, in punta di piedi, rispettando le posizioni di tutti, senza ricercare applausi, approvazioni, macchine fotografiche e telecamere.
E lo ha testimoniato prima di tutto tra le mura di casa. Con la moglie Fernanda con la quale ha condiviso non solo l’esistenza, ma il senso stesso della vita. Con i suoi quattro figli: Marco, Chiara, Giovanni e Paolo. La sua testimonianza domestica ha portato subito molto frutto suscitando in tutti i suoi eredi lo slancio solidale del padre. Non è un caso se proprio uno di essi, Marco, si sia impegnato in tanti decenni nella Comunità di Sant’Egidio fondata da Andrea Riccardi di cui attualmente è presidente.
Nella sua feconda esistenza Dino ha incarnato la più celebre massima di san Giovanni della Croce: “Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore”. Lui, soprannominato lo “chef dei poveri” perché ogni giorno sfamava oltre 300 persone tra le strade di Roma, amava ripetere: “La cosa più bella nella vita è amare il prossimo”. Testimonianza prima che parole, azioni concrete prima di tutto. Proprio per questo, nel 2020, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, lo aveva insignito dell’onorificenza al merito della Repubblica indicandolo come uno degli “eroi dei nostri giorni”.
Ecco l’altra grande lezione di Dino: si può diventare eroi anche in un mondo apparentemente pacificato, ma dove le guerre della fame e della povertà sono non meno crudeli di quelle fatte con le armi. Un mondo dove l’eroicità della carità è un bene sempre più raro, ma che, soprattutto dopo la pandemia, ha l’enorme necessità di essere diffusa. “Bonum est diffusivum sui”, il bene si diffonde insegnava san Tommaso d’Aquino, massima molto amata da Karol Wojtyla.
Di questa verità fondamentale Dino era ben consapevole. Per questo motivo fondò la onlus RomAmor, che oggi conta 300 volontari, che si occupa di sfamare i senzatetto e i poveri che vivono nella Capitale, ma anche del recupero sociale delle persone in difficoltà. Un esercito di donne e uomini che ogni giorno lo aiutavano a donare un sorriso, una carezza, prima ancora che un pasto caldo. Un’associazione, nata con il nome “Quelli del quartiere”, sorta grazie alla richiesta di un panino che un povero rivolse a Dino diversi decenni orsono.
Da lì l’impegno affinché, come amava ripetere il suo fondatore, “Roma si trasformi in una città ospitale in cui tutti si vogliono bene”. Col tempo i panini sono diventati centinaia di pasti grazie a un’intensa gara di solidarietà che ha coinvolto giorno dopo giorno tutti gli abitanti del quartiere dove abitava Dino: dai condomini del suo palazzo a quelli degli stabili vicini, ai negozianti della zona con il cibo avanzato e non più vendibile, ma ancora buono.
Negli anni di maggior vigore fisico Dino aveva compiuto anche numerosi viaggi nell’Est Europa. Nel 1989, all’indomani del crollo del Muro di Berlino, partì a bordo di un tir per portare rifornimenti alimentari alle popolazioni che fino a quel momento erano state sotto il regime comunista. Una vita spesa anche per aiutare i detenuti, in particolare nel carcere di Rebibbia, i baraccati, gli sfollati e i terremotati. Ovvero gli ultimi e il prossimo. Come il mendicante sotto casa al quale non ha mai fatto mancare le sue premure.
Testimonianza e solidarietà: due parole chiave nell’esistenza di Dino, unite a una riservatezza personale e una mitezza che hanno pochi eguali. Due perle preziose consegnate in eredità per prima alla moglie e ai figli, ma anche a tutti coloro che hanno collaborato a lungo con lui e alle persone che lo hanno conosciuto grazie alle sue immense e feconde opere di generosità. Come insegnava san Paolo VI nella sua esortazione apostolica Evangelii nuntiandi: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”. E Dino Impagliazzo è stato maestro perché testimone.