Il gruppo pubblico Eni ha chiesto al quotidiano Domani il pagamento di 100mila euro “entro 10 giorni”, in assenza del quale sporgerà querela. Nel mirino degli avvocati del Cane a Sei Zampe un articolo dedicato al procuratore generale di Milano Francesca Nanni, in cui si scriveva che il tribunale, nelle motivazioni della sentenza con cui ha assolto in primo grado i 15 imputati nel processo sulla presunta corruzione in Nigeria, “riconosce la possibilità di una tangente ma punta il dito contro i pm che sarebbero stati incapaci di portare le prove piene per la condanna”. La Corte aveva scritto che “all’esito dell’istruttoria non è stato possibile ricostruire con certezza tutti i fatti oggetto dell’imputazione nonostante l’acquisizione di migliaia di documenti e l’esame incrociato di decine di testimoni e consulenti di parte”.
Eni contesta il fatto che il giornale diretto da Stefano Feltri non ha dato atto nell’articolo del fatto che l’assoluzione è stata riconosciuta “perché il fatto non sussiste“, cosa che però era stata scritta in precedenti pezzi sul processo. Il gruppo a controllo pubblico ritiene più in generale di essere oggetto di “una campagna stampa diffamatoria” da parte del quotidiano, costituita da diversi articoli di cui quello in oggetto è considerato “esemplificativo”, e per questo chiede, a titolo di risarcimento del danno che sostiene di aver subito, 100mila euro subito. Altrimenti, spiega in una diffida, adirà le vie legali. Questo nonostante Eni abbia pubblicato la lettera inviata dall’azienda per chiarire la sua posizione rispetto all’articolo pubblicato il 27 luglio. Anche in caso di versamento dei 100mila euro, il gruppo del petrolio e del gas si riserva in ogni caso il diritto “di un’ulteriore quantificazione dei danni subiti”.
Alfredo Faieta, autore dell’articolo, ricorda che nelle motivazioni della sentenza di assoluzione gli stessi giudici “dopo aver bacchettato i pm tracciano scenari alternativi di ricostruzione sulla base degli elementi emersi in un paragrafo che si intitola Altri possibili corruttori. Ed è lo stesso collegio che spiega che «anche volendo ritenere che 466 milioni in contanti siano effettivamente pervenuti ai pubblici ufficiali così come contestato, appare evidente che si è trattato non di spontanea adesione ad un accordo corruttivo, bensì di una indebita dazione, frutto delle ingiuste minacce rivolte dal pubblico ufficiale Adoke al principale azionista di Malabu, Dan Etete»”.