Paola Egonu non è stata scelta come portabandiera dell’Italia. Infatti è troppo brava. Per adesso, dicono sia la migliore pallavolista di questi Giochi Olimpici covidari. Per fortuna ci ha pensato il Cio (su suggerimento dello stesso Coni, nella collaudata logica di un colpo alla botte e uno al cerchio) che ha rimediato alla decisione di sapore sovranista lasciandole la prestigiosa passerella della bandiera olimpica alla cerimonia d’apertura. Guarda caso, la tiratrice Jessica Rossi, alla quale il Coni ha consegnato la bandiera (assieme al ciclista Elia Viviani), ha subito perso, non onorando l’oro di Londra 2012.
Il che ci porta subito al dunque. Scherma: zero tituli. Nuoto: zero tituli. Ciclismo su strada: zero tituli. Tiro: zero tituli. Dovevamo stupire il mondo, siamo stupiti per le cocenti sconfitte negli sport che avrebbero dovuto ricoprirci d’oro a ricordare le previsioni di Rodomonte Malagò, presidente del Coni. Sinora, invece, ci hanno regalato qualche finale persa e tantissime mancate. Per non parlare di certe inspiegabili spedizioni – vedi il ciclismo e le discutibilissime scelte del commissario tecnico Davide Cassani.
Nello sport nulla è scontato, tantomeno nello sport sempre più globalizzato dove il Kosovo ha vinto due ori, Bermuda uno e San Marino il primo storico bronzo, che, fatti i dovuti confronti demografici, equivarrebbe a 150 bronzi azzurri… Il fatto è che nello sport non basta più aver vinto una volta e quindi, per diritto, pretendere la riconferma. Tantomeno, aver stabilito un record se poi ci si allena di più correndo dietro agli spot, pensando che la erre che manca è solo una consonante.
Vogliamo poi parlare di Rai Due, la Rai in salsa leghista? Ammannisce telecronache da Minculpop, dove l’enfasi in stile Brazil e il patriottismo in quota sovranista sono a livelli che avrebbero indotto persino Mussolini a suggerire più moderazione. Un conto è esprimere coi dovuti toni felicità e soddisfazione per i brillanti (eventuali) trionfi, e per la conquista dei podi. Un altro è il continuo ed esagitato parossismo…
Per fortuna della Rai e della spedizione olimpica, è arrivato l’oro di Valentina Rodini e Federica Cesarini, le prime italiane del canottaggio (doppio pesi leggeri) a conquistare non solo il podio, ma a vincere un’Olimpiade. Primato storico, quindi medaglia che vale assai di più. Hanno vinto in rimonta, ormai un brand italiano: all’ultimo colpo di remi (e di reni), battendo per 14 centesimi di secondo la Francia, ossia per una punta di prua. Dovremmo brevettarlo, il successo in extremis. Anche l’oro di Dell’Acqua è arrivato a sei secondi dalla fine, nel taekwondo pare sia la regola. La vittoria suspense delle due ragazze lombarde, inoltre, ha avuto un peso anche politico. Ha infatti puntellato, dopo giorni di cocenti delusioni e di critiche malcelate, la traballante poltrona di Giovanni Malagò, imprenditore prestato al Coni (lo hanno eletto durante il governo Monti) che aveva preannunciato una spedizione plurivittoriosa, meglio che a Rio de Janeiro, dove l’Italia vinse 8 ori e in complesso 28 medaglie.
Con due ori, siamo risaliti dalla modesta 15esima posizione nel medagliere alla decima, grazie a 7 argenti a dieci bronzi. Avessimo un oricino in più, saremmo davanti alla Germania, che ci precede, e alla Francia, che è ottava. Cina e Giappone precedono gli Stati Uniti, nel podio dei medagliati, staccatissimi seguono gli atleti russi, l’Australia, la Gran Bretagna e la Corea del Sud. L’attuale configurazione del medagliere rispecchia quello geopolitico asiatico e quello europeo, con gli Usa pronti a superare cinesi e giapponesi perché fra poco comincia l’atletica leggera.
Ci incalzano Olanda, Canada e Ungheria, probabilmente ci risupereranno. Vedrete che Malagò farà il conto delle medaglie complessive, in cui siamo sesti. Dirà agli amici giornalisti che siamo i primi nella classifica dei bronzi, ne abbiamo ben 10, a pari merito con Stati Uniti e Australia. E che siamo terzi degli argentati (7 volte secondi), battuti da Usa e russi, a pari merito con Cina, Gran Bretagna e Olanda. Spiegherà, perciò, che lo sport italiano non è alla frutta ma ai vertici mondiali. Che alcune sconfitte, come quella della tiratrice Diana Bacosi, già oro a Rio, sono state minime, cioè quasi vittorie. Che la globalizzazione dello sport ha reso ancor più difficile primeggiare.
A supporto di queste sue argomentazioni, Malagò riferirà con sue parole quello che hanno scritto alcuni commentatori: “Non vincere alle Olimpiadi non significa perdere pezzi di sé”, è l’occhiello che accompagna l’articolo dell’enigmista Stefano Bartezzaghi su Repubblica (29/7), “Favoriti e battuti non sono perdenti, chiamateli umani”, incalza sempre Repubblica, è il titolo di un pezzo di Maurizio Crosetti, “L’oro arriverà, non sarà una cascata, ma non facciamoci prendere dall’ansia”, raccomanda Daniele Dallera sul Corriere della Sera, “altrimenti si vive male e a Tokyo la vita è già dura per tutti, in particolare per gli atleti che hanno bisogno di libertà, per concentrarsi meglio, per esprimere talento e forza, invece sono costretti a convivere in una bolla”. Come se la pandemia non ci fosse da quasi due anni… ma il nuotatore britannico Thomas Dean ha avuto due volte il Covid e ha vinto due ori (nei 200 stile libero e nella staffetta 4×200).
E il nostro Gregorio Paltrinieri, sino a un mese fa sofferente per una debilitante mononucleosi, capace di sfiorare l’oro negli 800 metri? No, i problemi sono altri. Magari anche tecnici. Magari anche organizzativi. Magari, anche di approccio mentale: le Olimpiadi non sono come un torneo di calcio, come gli Europei, eppure c’è chi deve aver detto ai nostri atleti che è la stessa cosa…
Per giustificare le sconfitte e le prestazioni al di sotto delle attese (e dei risultati preolimpici), comunque c’è chi ha spiegato – sui giornaloni, soprattutto – che non si trattava di flop sic et simpliciter ma frutto di ansie, di pressioni mediatiche (il cane che si morde la coda), di stress psicologici (se perdi non sei più un vincente, dunque sparisci dal mercato sportivo). Insomma, l’altra faccia dello sport, sempre più centrale nella società di oggi, quindi sempre più gravato di responsabilità e di complesse connessioni, in cui la mente (e la “mentalità” che da vincente può divenire drammaticamente perdente) ha un ruolo dominante.
Fin dai tempi di Tomba, eroe del nostro sci alpino, è emerso il ruolo determinante del “mental coach”. E di tutto l’ambaradan tecnico che accompagna la figura del campione. Più vinci, più ottieni sponsorizzazioni, materiali ipertecnologici, vetrina mediatica, gli accessori, le diete, insomma, come si suol dire in gergo, vieni “brandeggiato” e blandito. Tutto ciò fa parte dell’identità del campione. Se perdi, rischi di smarrirla. Come ha confessato la straordinaria ginnasta americana Simone Biles, che si è scoperta fragile psicologicamente. Vittima di demoni interiori. Costretta a vincere, non ha più sopportato tale dovere. Mentre Federica Pellegrini, al suo canto del cigno, ha dimostrato che si può vincere anche perdendo. Forse, ha sofferto di più arrivare settima in finale, anche se era la quinta finale consecutiva dei 200 metri stile libero di cui è ancora la primatista mondiale (record che detiene da dodici anni). Ha accettato lo stato delle cose. Ha abbassato, di poco, l’asticella delle pretese sportive ma ha alzato quelle della sua vita.