I giornalisti del quotidiano la Repubblica dovranno indicare all’azienda, per continuare a svolgere il proprio lavoro, “i dati personali che rivelano l’origine razziale o etnica“. La richiesta è arrivata giovedì agli oltre 300 cronisti del giornale fondato da Eugenio Scalfari dalla direzione delle risorse umane. Nella mail, che ha come oggetto l’informativa sulla privacy dei dipendenti e che si è resa necessaria per il passaggio di Repubblica a Gedi News Network – di cui fanno già parte La Stampa, Il Secolo XIX e diverse testate locali – si va oltre il riferimento alla “razza” che, come si sa, scientificamente non ha alcun fondamento. Infatti l’azienda vuole anche conoscere, di ciascun lavoratore, l’eventuale adesione al sindacato, a un partito politico, le convinzioni filosofiche e la religione. “Un errore”, lo ha definito il direttore del quotidiano, Maurizio Molinari, che oggi con un editoriale in prima pagina ha spiegato: “L’intervento dei redattori e dell’azienda ha consentito di identificare e correggere in tempi rapidi una procedura che, ancorché pensata per tutelare i diritti dei lavoratori e redatta in osservanza delle norme sulla privacy, appariva il suo esatto contrario“.
Le informazioni, come si legge nel documento che ilFattoQuotidiano.it ha potuto vedere, sono state richieste “ai sensi dell’articolo 9, par. 2 lett. b)” del GDPR. Che recita così: “Il trattamento è necessario per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell’interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e protezione sociale, nella misura in cui sia autorizzato dal diritto dell’Unione o degli Stati membri o da un contratto collettivo ai sensi del diritto degli Stati membri, in presenza di garanzie appropriate per i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato”.
Giovedì la maggior parte dei giornalisti di Largo Fochetti ha manifestato l’intenzione di non rispondere alla mail. Il comitato di redazione, da quello che si è appreso, ha quindi incontrato i vertici dell’azienda, in particolare il capo del personale Roberto Moro, il direttore generale Corrado Corradi, il direttore Molinari e il vicedirettore Carlo Bonini, esprimendo contrarietà in merito a quelli che ha definito “irricevibili passaggi” della mail. L’azienda ha così ritirato il modulo, con la promessa di inviarne un secondo, corretto.
“Bisogna rendersi conto che siamo nel 2021 – racconta un giornalista della testata – e che un giornale che sulla difesa dei diritti e sull’uguaglianza tra le persone ha costruito parte della propria storia, non può chiedere ai dipendenti la razza. Una cosa che non esiste e che peraltro è discriminatoria. Se accadesse in una grande testata di un Paese europeo si solleverebbe un putiferio”. Non piace nemmeno il riferimento all’organizzazione sindacale, al partito, alle proprie convinzioni e alla religione: “Perché la proprietà vuole conoscere queste cose? Qual è lo scopo? Cambia qualcosa all’azienda se sono ateo, cattolico o buddista?”.
Nel suo articolo, il direttore Molinari ha spiegato che la definizione di “origine razziale o etnica” è apparsa nel documento perché “compare nel testo del Regolamento Ue 2016/679“. in particolare al comma 1 dell’articolo 9, “con il risultato di veicolarla nel nostro ordinamento con il decreto 101 del 2018. Ovvero, nei testi del Codice Privacy della Repubblica italiana”. Dunque, conclude, “ci batteremo per espellerla dai testi ufficiali Ue come dalle nostre leggi, incluso l’articolo 3 della Costituzione”. Nessun riferimento, però, alla richiesta di conoscere adesione al sindacato, a un partito politico, le convinzioni filosofiche e la religione, effettuate sempre ai sensi del GDPR europeo.