L’amarissima vicenda Mps finirà, nonostante un estenuante balletto durato mesi, come tutti si aspettavano dovesse finire. Ma anche nel modo peggiore per lo Stato e i contribuenti italiani. La resa del Tesoro alle condizioni diktat poste dall’ad di UniCredit, Andrea Orcel, sarà totale. Il gruppo di piazza Gae Aulenti si prenderà, con ogni probabilità e senza colpo ferire, il buono che ancora c’è di Mps, lasciando le ceneri del decennio tragico della banca senese al Tesoro italiano. Ceneri pesantissime.

Orcel vuole mano libera sulla rete commerciale della banca, senza accollarsi alcunché. Né lo strascico delle cause legali, che valgono oggi 6 miliardi di euro, dopo che la banca ha transato per 150 milioni la grottesca richiesta danni della Fondazione da 3,8 miliardi. Né tanto meno la spazzatura dei crediti malati che ancora giacciono nei bilanci della banca. A fine 2020 i crediti deteriorati lordi di Mps valevano 4 miliardi. Tutti rispediti al mittente, cioè il Mef che possiede il 64% della banca. Finiranno in pancia ad Amco, la società che si occupa di Npl posseduta al 100% dallo stesso Tesoro che li acquisterà per 2 miliardi cercando nel tempo di recuperare il più possibile. Non solo, ma Orcel ha fatto chiaramente capire che non è interessato agli sportelli nel Sud Italia, dato che è già presente con l’ex Banco di Sicilia. Rete che finirà nelle mani di Mediocredito centrale, altra partecipata pubblica che si accollerà la parte debole della rete di Mps. A conti fatti la bolletta per i contribuenti italiani finirà per salire nell’intorno dei 10 miliardi, dopo che il Tesoro ha già visto bruciare oltre 4 miliardi di valore della sua partecipazione nella banca. Conto salatissimo, quindi. In fondo va in scena su larga scala il vecchio principio di “privatizzare i profitti e socializzare le perdite”.

D’altronde il passaggio era di fatto obbligato. Negli anni, da quando il Tesoro nel 2017 si è dovuto accollare le sorti della banca toscana, nessun compratore vero si è mai fatto avanti. E l’accordo con l’Europa era vincolante: fuori lo Stato dal capitale entro quest’anno. Una condizione che ha visto il Tesoro, obbligato a vendere, partire con l’handicap e con il coltello dalla parte del manico per i possibili compratori. Coltello che UniCredit ha brandito con astuzia facendo bollire a fuoco lento il Tesoro e imponendo condizioni draconiane. Per UniCredit prendere la ciliegina dalla torta malandata di Mps vuol dire recuperare il terreno perso negli anni con Intesa. Gli 80 miliardi di prestiti, un attivo di 150 miliardi e i depositi vogliono dire conquistare senza oneri il 4% del mercato bancario, togliendo di mezzo un concorrente. E senza più rettifiche sui crediti malati, vuol dire portarsi a casa utili dalla gestione operativa assicurati. Cosa c’è di meglio? In fondo si replica il modello Intesa con le banche venete. La parte buona alla banca, le macerie al pubblico.

Il flop della gestione pubblica – Ma se UniCredit ovviamente festeggia il colpaccio, resta sullo sfondo il drammatico flop della gestione del Tesoro negli ultimi 4 anni che ha irrimediabilmente spalancato la porta a quelle che oggi è di fatto una grande svendita. I numeri sono disastrosi. Si è badato a pulire la banca dal macigno delle sofferenze che, a fine del 2017, pesavano per oltre il 16% (quelle nette) degli impieghi. La pulizia con le cessioni dei crediti malati è andata alla fine in porto. Certo non senza sacrifici dato che quelle cessioni hanno comportato perdite per quasi 5 miliardi di euro dal 2017 a fine 2020.

Ma nulla è stato fatto sulla gestione operativa della banca. Anzi. Sotto la gestione pubblica, infatti, la banca senese ha perso per strada la bellezza di 1,1 miliardi di ricavi. Nel 2017 Mps chiuse il bilancio con 4 miliardi di ricavi; a fine 2020 i ricavi si sono fermati a solo 2,9 miliardi. Perdere quasi il 30% delle entrate è un record assoluto nell’intero sistema bancario italiano. Nessuna banca ha visto declinare così potentemente la sua capacità di fare incassi. Quel taglio secco di quasi il 30% è più del doppio della media del declino dei ricavi delle altre banche italiane. Il rapporto tra costi e ricavi che era già alto nel 2017, pari al 63%, è salito al 75% di fine 2020. Le continue perdite hanno visto il capitale della banca scendere dai 10,4 miliardi di 4 anni fa ai 5,7 miliardi dello scorso anno.

La gestione da parte dei vertici dell’istituto, prima con il duo Bariatti/Morelli, poi con Grieco e Bastianini, non è riuscita a risollevare l’agonia decennale della banca toscana. E che il fallimento sia totale lo dice quel piano industriale 2017-2021, predisposto all’epoca, e che stimava per il 2021 ricavi della banca a 4,3 miliardi, un utile netto addirittura di 1,2 miliardi e un ritorno sul capitale del 10%. Il 2020 si è chiuso lontano anni luce: ricavi a 2,9 miliardi, perdita di 1,69 miliardi e Roe sottozero. E il nuovo piano 2021-2025, redatto in chiave stand alone, non è certo un esempio fulgido di ripartenza. Intanto prevede per il 2021 di chiudere ancora in perdita per oltre mezzo miliardo. Con il primo utile significativo solo nel 2023 e con un Roe solo del 3,7%, ben lontano dal miraggio del 10% del vecchio piano. E i ricavi che dovevano arrivare nel 2021 a 4,3 miliardi nel vecchio piano si fermeranno, se tutto andrà per il meglio, a solo 3,2 miliardi ma per questo occorrerà attendere il 2025. Con queste prospettive e dopo aver completamente fallito il primo piano del rilancio pubblico, ben si comprende come l’appetibilità della banca per un eventuale compratore si sia negli anni ridotta a zero.

I “danni” della Fondazione – Non solo ma un intralcio bello e buono ha finito per metterlo anche la Fondazione Mps che nell’agosto del 2020, con dieci anni di ritardo, ha chiesto danni per 3,8 miliardi per l’acquisizione di AntonVeneta e gli aumenti di capitale successivi. Una richiesta quanto meno opportunistica se non grottesca, dato che la Fondazione aveva all’epoca dei fatti non solo il controllo maggioritario della banca, ma ha sempre avallato le scelte di Mussari e compagnia. Una tesi poco credibile, tanto che si è giunti pochi giorni fa a una transazione per soli 150 milioni della causa monstre, a riprova della pretestuosità della causa. Nel frattempo però il macigno del danno ha contribuito ad allontanare ancor più eventuali compratori.

Alla fine, se tutto procederà come prevedibile, la storia di Mps si chiuderà definitivamente. E racconterà che pur di non far saltare quella che era la terza banca del Paese, si è compiuto uno dei più grandi falò di risorse pubbliche del Paese. Trasferendo gratis, depositi e impieghi e quote di mercato alla seconda banca del Paese. E accollando alle finanze pubbliche la zavorra plurimiliardaria di un decennio di ecatombe senese. Una pagina nera per il Tesoro italiano.

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