Prima il difficile rapporto con un padre-allenatore e la voglia di mollare tutto, dopo quell'infortunio alla caviglia che gli ha tolto i Giochi di Rio proprio nel suo anno d'oro. Ora Gimbo si è ripreso quello che gli è sfuggito cinque anni fa
Ogni salto è una professione di fede in una bugia. Perché flettere il proprio corpo fino a superare quell’asticella significa convincersi di poter dilatare un attimo fino a renderlo infinito, di relativizzare quella forza che ti calamita al suolo. Almeno per qualche secondo. Una vita di alti e bassi. È così anche per Gianmarco Tamberi, l’uomo a metà che correva il rischio di venire inghiottito nel limbo. Perché la storia dell’altista italiano era un romanzo in cerca di lieto fine dopo un plot twist doloroso.
L’incipit arriva quando Gimbo è poco più di un bambino. L’atletica è un amore grande ma infedele. L’altezza è una fissazione che si manifesta sotto varie forme. L’importante è protendersi verso il cielo. Così quando non salta in alto Tamberi salta a canestro. Il basket è un tarlo. Per un po’ potrebbe diventare la sua professione, ma alla fine resterà solo un hobby. A 17 anni la scelta è compiuta. La pista d’atletica diventa il suo habitat, l’asticella il suo avversario. Gimbo suda tutti i giorni. Cresce. Nel fisico e nel talento. A forgiarlo è un allenatore particolare. Suo padre Marco. È stato primatista italiano indoor nel salto in alto. Ha disputato anche un’Olimpiade. A Mosca, nel 1980, senza avvicinarsi alle medaglie.
Marco è severo. Ha un carattere molto simile a quello del figlio, forse troppo. Faticano ad andare d’accordo, tutto diventa una questione di principio. “Quando si è separato da mia madre – ha detto Gimbo a Vanity Fair – io sono rimasto a vivere con lui, mentre mio fratello Gianluca si è trasferito a Roma. Per me mio fratello è sempre stato uno dei più grandi stimoli, lo guardavo e pensavo che volevo diventare forte come lui, batterlo. Era primatista italiano nel lancio del giavellotto, poi ha avuto dei problemi con l’allenatore che era, guarda caso, mio padre”. I due stanno sempre insieme. A casa. Agli allenamenti. Un rapporto così stretto da diventare soffocante, affetto che si fa tormento.
Gianmarco non ne può più. Salta gli allenamenti, se ne infischia della dieta, beve alcolici. È a un passo dalla fine. O torna in carreggiata o sbatte contro un muro. Anche la Federazione glielo fa presente. Il suo comportamento non può più essere tollerato. Tamberi aveva iniziato a giocare in un torneo di basket, aveva deciso di voltare pagina. Solo che il richiamo dell’asticella è troppo forte. Così il cambiamento arriva nella vita privata. Gimbo va a vivere da solo. Il padre non è d’accordo. Il ragazzo tira dritto, saluta, esce di casa. E si responsabilizza. Una volta allentato quel legame inizia a respirare. Anche perché sa che non ci sono allenatori bravi come Marco. I rapporti pian piano si distendono. “Il presente è fatto di due persone adulte che si vogliono bene – ha detto il padre alla Gazzetta qualche tempo fa – e che perseguono un obiettivo comune, che non si accusano mai a vicenda e che anzi cercano gli errori insieme”.
Smettono di farsi la guerra perché iniziano a farla agli altri. I due diventano quel salmo che dice che “I figli sono come frecce nell’arco di un eroe”. Ed è vero. Marco plasma Gianmarco. Nell’atletica, ma anche fuori. Una volta si stanno allenando quando il padre dice che per curvare meglio nella rincorsa dovrebbe tagliarsi la barba solo da una parte. Così il viso sarebbe diventato più pesante su una guancia e lui si sarebbe inclinato maggiormente. È solo una boutade. Diventa una regola. Gimbo si rade solo la metà destra del viso. E migliora il suo salto di 11 centimetri. Quello della barba diventa un rituale. Così come le gare affrontate con calze e scarpe spaiate.
Il 2016 è il suo anno d’oro. Vince tutto. Nel vero senso della parola. Titolo italiano, europeo e mondiale. Il 15 luglio, a Monaco, va in scena la nonna tappa della Diamond League. Tamberi salta a 2.39 metri. Eguaglia il record olimpico scolpito dallo statunitense Charles Austin ad Atlanta 1996. Ma a Gimbo non basta. Vuol saltare ancora più in alto. Sposta l’asticella in su. Di due centimetri. Prende la rincorsa, curva, salta. Ma si fa male a una caviglia. I suoi sogni olimpici finiscono lì. Perché quel problema fisico gli impedisce di volare a Rio. Da possibile campione a spettatore. Tutto in una frazione di secondo.
La rivincita tarda ad arrivare. Nel 2020 gli organizzatori rimandano i Giochi a causa del Covid-19. Tamberi ascolta la notizia al telegiornale e si mette a piangere. Una goccia dopo l’altra. Lo scorso febbraio vola a 2.35. È un ottimo risultato. Più in prospettiva che in nell’immediato. Il suo futuro è tutto in un’addizione. Servono altri 4 centimetri per sognare l’oro. Solo che quella soglia pare inarrivabile. Invece di decollare Gianmarco si avvita su sé stesso. A Leverkusen, a fine giugno, fa registrare 2.20. “Forse sono un’illuso“, commenta sui social. Una settimana più tardi, al Continental Tour, arriva a 2.30. Gimbo sognava di riprendersi quello che gli era sfuggito cinque anni fa. D’altra parte l’oro era solo a qualche centimetro di distanza.