C’è qualcosa che stona nell’accusa secondo la quale il Green Pass sarebbe il preludio del nuovo dispotismo sanitario. Ciò che mi pare non tenga è l’idea che siamo preda di un potere arbitrario e anarchico, che fa ciò che vuole: un potere sfrenato. Ma davvero il potere odierno, nell’ordinamento di una democrazia liberale, per quanto in crisi, per quanto azzoppata, per quanto ‘autoritaria’, è un potere sfrenato che fa ciò che vuole, impunemente? Davvero il potere è in grado di ripetere ciò che accadde 80 anni fa? Davvero in mezzo non c’è niente, tra allora e oggi, un argine, un limite?

Siamo in grado di riconoscere che curvatura, seppure nel contesto ossimorico di una democrazia autoritaria, c’è stata, ma questa curvatura non possiamo datarla dall’istituzione del Green Pass, ma da ben prima: dall’esautorazione del parlamento per via di governi ‘di riserva’, dalla sterilizzazione dei referendum sul sistema elettorale, dalla messa in mora della contrattazione collettiva nazionale, dal definanziamento dell’istruzione, della sanità, dall’affermazione dell’insindacabilità del ‘vincolo esterno’, dall’applicazione della logica emergenziale indiscriminatamente dai ‘grandi eventi’ al contrasto al terrorismo internazionale, dal potere strabordante del finanzcapitalismo.

Eppure il potere non fa ciò che vuole: non su tutto, non così tanto. Tra la Shoah e il Green Pass c’è l’istituzione delle Corti costituzionali, c’è una certa forza delle corti sovranazionali, c’è l’affermazione, per quanto traballante e ipocrita, del sistema dei diritti umani, c’è lo sviluppo di un sistema di comunicazione che mette in crisi l’univocità della propaganda, c’è il pluralismo dell’informazione, ci sono i tribunali amministrativi, ci sono gli intellettuali, ci sono le masse.

Ingenua fiducia nella reazione e nella tenuta generale del sistema? Forse. Ma se la ragione si trova in questo cul de sac, figuriamoci la sragione, figuriamoci la prefigurazione di una società nella presa mortifera del potere dall’homo sacer fino ad Auschwitz e poi al Green Pass, senza alcuna soluzione di continuità, sine glossa. C’è qualcosa che non funziona nella critica che mette insieme un potere sempre eccezionale con un potere mediato, imbrigliato, tamponato.

Ma allora tutto va bene, madama la marchesa? Ma allora c’è sempre un giudice a Berlino? Certo che no, perché di forzature, di strappi, di fenditure nell’ordinamento, come si è detto, ne abbiamo viste molte. Che tuttavia, sia detto per inciso, non hanno mai scatenato il ribellismo millenaristico di questi giorni.

Ed è a questo ultimo proposito che occorre dire che, se non va tutto bene, è anche per una ragione opposta a quella agitata da coloro che sostengono che siamo nel contesto di una dittatura sanitaria che ci fa pensare alle dittature novecentesche, quelle del nazi-fascismo o dello stalinismo. Quello che vediamo, se proprio vogliamo ragionare nei termini di un’analogia col passato, non è tanto e solo l’immagine di un potere che esorbita (ed esso, lo abbiamo detto, pure esorbita), ma la — pur in qualche misura giusta, fondata, credibile: si pensi all’insostenibile professione di fede cieca nella ‘Scienza’ — critica della ragione, quella critica che alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento aveva di mira la ragione illuministico-borghese.

Una critica che oggi come allora è in nome del buon senso, della distruzione dei valori del razionalismo illuministico, in nome dell’irrazionalismo spiritualistico, in nome del vitalismo che sfida la morte ‘aristocraticamente’, vien fatto di dire superomisticamente (secondo quel paradossale superomismo di massa che è un segno del tempo presente), come si legge in quei cartelli da novelli arditi con lo scheletro e il pugnale tra i denti: “Meglio morire da liberi che vivere da schiavi”. Un nuovo “Me ne frego”.

Qui però si gioca con il fuoco. Che a mobilitare queste forze dell’irrazionale e del simbolico, non si finisca poi a doverne temere gli effetti dispiegati, come quegli stregoni a cui le forze risvegliate si rivoltano contro. Acheronta movebo, ma a brigare col teologico-politico si finisce per accorgersi che gli effetti che produce non sono quelli della ragione, dei diritti, della democrazia, della libertà, ma quelli della produzione di simboli teologico-religiosi, oggetti di culto, sempre più affini alla fede cieca che alla ragione e al dubbio. Tanto evocati e, una volta scoperchiato il vaso, tanto inquietanti, come un golem non più disattivabile.

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