Singolarmente per traverso, popolanamente fumantino, letterariamente di pancia. Antonio Pennacchi è morto. Aveva 71 anni. Lo scrittore, premio Strega nel 2010 con Canale Mussolini (Mondadori), aveva impresso sulla letteratura italiana una nuance fasciocomunista spiazzante, inattesa, indecifrabile. Anche se poi tutta la carica eversiva verbale del Pennacchi finiva sempre nell’orto piddino e mai houllebecquianamente in una sintesi alta, decadente, distruttiva dell’esistente. Questione di gusti, si dirà. Ma Pennacchi, ex operaio alla Alcatel Cavi di Latina per oltre trent’anni, prima missino, poi maiosta, poi socialista, poi in Cgil e Uil, ma sempre sinistramente, orgogliosamente cacciato a pedate da tutti, aveva fatto di questa sua trasversalità politica, che poi è vicinanza umana e sociale, perfino storica, tra ipotetici estremismi partitici, un tratto distintivo sostanzialmente intellettuale.
Il primo romanzo – Mammut – l’aveva scritto durante un periodo di cassa integrazione nella seconda metà degli anni ottanta ed era stato rifiutato da una quantità indefinita di editori – alcuni lo avevano ricevuto identico ma con titolo modificato – fino a quando a togliere le castagne dal fuoco era stato Donzelli nel 1994. Ironico, drammatico, storia di operai e di consigli di fabbrica, in Mammut c’è già tutto il Pennacchi che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi trent’anni, periodo che l’ha poi elevato al successo commerciale e (non proprio per tutti i recensori) a quello della critica. In mezzo ad un linguaggio ruspante e allo stesso tempo colto, dialetto venetopontino (la mamma era originaria del rodigino e si era trasferita assieme al padre umbro durante il periodo fascista della bonifica dell’Agro Pontino), digressioni che ammaliano e intemerate che fanno sorridere, Pennacchi ha subito confermato che la sua letteratura, materiale di spessore sia chiaro, era anche e parecchio questione biografica. Ben rimescolata alla finzione narrativa tout court, sia mai. Ben rimodulata in una dimensione esistenziale basculante, critica, non concettualmente inquadrabile.
Quando esce Il fasciocomunista (Mondadori, 2003) e il protagonista Accio Benassi ripercorre guarda caso la sua giovinezza (usiamolo a tono il termine, per carità) tra anni sessanta e settanta, eccolo il Pennacchi ragazzuolo, quello vero, incazzarsi come una pantera perché il regista Daniele Luchetti aveva trasformato deliberatamente la storia (vera) sua nella seconda parte del film Mio fratello è figlio unico. Pennacchi interpretato da Elio Germano, “proprio così sempre litigioso, polemico, rompiscatole” (parole del fratello di Pennacchi, il signor Gianni, lui però ex socialista perché la “vera comunista” era la sorella Laura), è all’apoteosi della celebrità. È lì che Antonio rimescola le carte di un’epoca berlusconiana boccheggiante (“Berlusconi uno come lui i veri fascisti l’avrebbero preso a bastonate”), come di un prodismo tracotante, valicando il confine della letteratura e fondando una lista elettorale, proprio nella sua Latina (chi l’ha mai capita quella zona lì, elettoralmente parlando?) che gli allora reggenti del partitino finiano definirono futurista. 831 voti. 1% di preferenza. L’asse fascio comunista di Pennacchi saluta e ringrazia. Intanto conquista il premio Strega per quel romanzo familiare, vera e propria saga buddenbrookiana dagli anni dieci del Novecento alla seconda guerra mondiale.
Sempre Latina, con quella famiglia Peruzzi che sono i Pennacchi, nel caso lo si voglia vedere così, ebbri di lotte a bastonate tra squadristi e socialisti, innestati nella palude pontina, avvezzi alla ricostruzione, travolti dalla guerra d’Etiopia, perfino vicino ai repubblichini quando arrivano gli alleati che potrebbero sottrargli quel poco di gloria socio-economica conquistata. Canale Mussolini è un libro chilometrico e stratosferico, un oggetto che sembra come rispecchiare l’esuberanza caratteriale dell’autore. Ci sarà anche un secondo capitolo nel 2020 aggiornato peruzzianamente al dopoguerra. Infine l’ultimo romanzo, La strada del mare (Mondadori): ancora operai, ancora l’agro pontino, lo scrivere come “condanna”. Così come dichiarò di recente a Rolling Stone, sempre con quella sua sciarpa rossa e quel suo cappelletto nero: “Finirà quando me ne andrò. O quando con la testa e non sarò più in grado di lavorare. Anche se mi sono stufato, avrei tanta voglia di smettere… Non è un piacere scrivere, ma dolore”.