Un anno fa veniva inaugurato il nuovo viadotto sul Polcevera. Erano passati quasi due anni dal tragico crollo del ponte disegnato da Riccardo Morandi e inaugurato il 4 settembre 1967 dal Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, sotto un violento nubifragio, dopo mille polemiche sulla stampa nazionale e locale (Figura 1). L’arcobaleno che ha incoronato l’inaugurazione del viadotto San Giorgio fa sperare in meglio. C’erano voluti quasi sei anni per costruire quel viadotto strallato lungo circa un chilometro: “A questo ritmo, l’Autosole sarebbe ancora in costruzione” criticò un cronista. Era lo stesso inviato che, arrivato a Genova in aereo, aveva commentato stupefatto: “Il ponte dall’alto fa proprio pensare alle città del futuro, dinamiche e veloci”. Peccato che il costo fosse quasi raddoppiato dalle previsioni iniziali.
Per il nuovo Ponte San Giorgio c’è voluto meno tempo. Dopo 50 anni le tecnologie sono migliorate, la soluzione strallata è stata accantonata e, non ultimo, sull’opera è discesa la grazia della deroga. Merito anche del “Modello Genova” che fa venire l’acquolina in bocca a tutti coloro che attendono la manna infrastrutturale del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Un modello controverso.
La pandemia ha esaltato l’italica filosofia dell’emergenza che John Dickie dell’University College di Londra ha descritto con acume: “L’Italia è la nazione europea più incline ai disastri e la successiva narrazione apocalittica ha spesso giustificato l’esaltazione dell’eccezionalità da parte di maggiorenti, media e intellettuali”. Dopo ogni disastro, dal colera alle alluvioni, politica e impresa invocano da sempre normative emergenziali. L’emergenza, però, raramente si sposa bene con l’importanza. Spesso divorziano rapidamente.
Fare rapidamente e bene dev’essere uno standard, non l’eccezione piovuta dal cielo delle deroghe. Un anno fa 75 vigili del fuoco liguri hanno scritto ai parenti delle vittime: “Ciò che si apprestano a celebrare non è solo la ricostruzione di un ponte indegnamente crollato ma è il cosiddetto modello Genova che vogliono estendere a tutta Italia con la scusa della crisi economica, cioè la costruzione di grandi opere infrastrutturali con ancora meno controlli, causa stessa dei disastri”. Sono gli stessi eroici protagonisti dell’immediato intervento sul luogo del disastro.
Anche per il ponte progettato dal genio di Morandi non mancarono le deroghe, magari informali, come osservò Filippo Lagomaggiore, professore e ingegnere strutturista che insegnò nell’Università di Genova e conobbi già da studente, quale assistente del corso di Scienza delle Costruzioni tenuto da Riccardo Baldacci. Su Il Secolo XIX del 29 agosto 2018, Lagomaggiore ricordò che, nella gara di appalto del 1959, “con sorpresa fu dichiarato vincitore il ponte Morandi in conglomerato cementizio precompresso, che però violava il requisito del capitolato che prescriveva che la struttura dovesse essere tutta sottomessa al piano di scorrimento viabile”. In pratica, il capitolato escludeva soluzioni strallate, previste invece dal progetto originale di Morandi che prevedeva lo strallo formato da 7 cavi (Figura 2).
Invero, in fase di esecuzione, lo schema del cavalletto strallato fu modificato dallo stesso Morandi (Figura 3). Nella soluzione definitiva i cavi di acciaio interni sono sempre fortissimamente tesi: un gruppo sostiene solo il peso proprio del ponte e i carichi accidentali; un altro precomprime la guaina, ne sopporta il peso e aiuta con i carichi viaggianti. Come illustrato nella Storia dell’Ingegneria Strutturale in Italia “gli stralli biforcuti sono tanto semplici ed essenziali nella figura finale quanto complessa è la guerra di tensioni che si combatte al loro interno” (SIXXI, Vol.4, a cura di Tullia Iori e Sergio Poretti, Roma: Gangemi Editore, 2018).
E concordo con Lagomaggiore quando afferma che “il peccato originale del quale il ponte è affetto, la violazione di una clausola del capitolato di gara, sia la prima causa di tutto ciò che successivamente alla costruzione è successo: dalla messa in opera di una grande massa di conglomerato cementizio in corrispondenza del piano viabile e quindi in parte sulle case esistenti, alle spese per tutte le manutenzioni straordinarie effettuate, all’intervento della integrazione della struttura degli stralli della campata più a est (progettato dal collega Martinez y Chiabrera del Politecnico di Milano) e infine a quanto luttuosamente accaduto in questi giorni, da me vissuto con grande dolore e vergogna”. A Filippo, che ci ha lasciato due anni fa, va il mio ricordo sincero e affettuoso per aver trasmesso e poi condiviso la sua attitudine pratica ai problemi, anche i più complessi, dell’ingegneria civile.