È passato un anno dall’esplosione che ha distrutto buona parte del porto della città di Beirut, e che ha messo in ginocchio l’economia del già fragile paese medio orientale. Vediamo ora quale è la situazione nel paese dei Cedri, nell’anniversario di questo tragico evento.

Immediatamente dopo l’esplosione sembrava che il Libano fosse tornato ad essere una delle priorità nelle agende delle cancellerie e dei ministeri di mezzo mondo. Con la visita di Macron nella capitale libanese si era sentita tangibile la possibilità di una rapida ripresa. Non solo dal punto di vista economico ma anche sociale, politica e istituzionale.

Nella realtà nulla è cambiato. Anzi la situazione è gradatamente ma rapidamente andata a peggiorare e ora il Libano si trova stretto in una morsa che interessa non solo lo stato e le sue istituzioni, ma la vita quotidiana del cittadino comune, che vede la sua vita limitata a causa della mancanza anche dei generi di prima necessità e dei servizi essenziali, con una leadership che non sembra in grado di fornire delle risposte concrete e celeri.

In questi ultimi giorni si intravede una possibilità, almeno dal punto di vista politico di una virata in senso positivo della situazione. Infatti vi è la possibilità concreta della formazione di un governo nazionale che possa scongiurare i rischi legati al crollo totale dell’apparato statale e di tutto il sistema Libano.

Anche se non aleggia un’aria di ottimismo, bisogna comunque agire, perché oggi come oggi, le opzioni sono veramente poche.

La classe politica non è riuscita ad offrire soluzioni che potessero affrontare e risolvere la situazione di crisi già presente nel paese, ed ora la loro preoccupazione principale è quella di riuscire a formare un esecutivo che possa avere il consenso, anche se fragile, ma che possa permettere al Libano di uscire rapidamente da questa fase critica.

In Libano oggi perdono tutti; ma soprattutto perdono i cittadini il cui destino è nelle mani di gruppi politici che lottano sempre più ferocemente per difendere e portare avanti i propri interessi.

Dal punto di vista strategico questa crisi ormai supera i conflitti, le rivalità interne, che rimangono comunque sottotraccia, ma che non hanno la priorità in un contesto in cui la situazione umanitaria è arrivata ad un livello limite.

I cittadini fino ad ora quando hanno manifestato lo hanno fatto per incitare cambiamenti politici, ora lo fanno per una questione di mera sopravvivenza. Con le primavere arabe le persone scendevano in piazza per manifestare contro la corruzione e il mal governo, oggi lo fa perché mancano i generi alimentari, la corrente elettrica, l’acqua, le medicine e i servizi primari. La prospettiva e le condizioni sono completamente cambiate.

Non sorprenderebbe quindi una nuova ondata di proteste popolari.

La possibilità di formare un governo, malgrado gli scettiscismi, è comunque forte, anche se il nuovo premier Najib Mikati, classe ’55, miliardario di Tripoli, ha riscosso più voti rispetto al suo predecessore Saad Hariri, che il 15 luglio ha rinunciato all’incarico per impossibilità di formare un governo.

La nota positiva è che oggi vi è la consapevolezza e la convergenza di pensiero che se non si perviene alla formazione di un governo entro breve le ripercussioni potrebbero essere disastrose. Questa consapevolezza è alla base del fatto che partiti come Hezbollah, stiano facilitando la formazione del governo, nonostante siano stati i primi ad essere accusati di aver fatto arrivare il Libano sull’orlo del baratro.

A questo quadro manca un elemento: il consenso della componente cristiana guidato dal presidente Aoun, che nel caso di fallimento nella formazione del governo ad aprire una nuova ondata di violenze e crisi sociale e istituzionale.

Questa situazione di forte instabilità è frutto del sistema settario che rende il paese più fragile e le cui componenti sono più propense allo scontro interno che non alla collaborazione e alla costruttiva conciliazione.

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