di Silvia Zaccaria

Con oltre 1.000 “parenti” morti per complicazioni legate al Covid, secondo i dati del Comitato Nazionale per la Vita e la Memoria Indigena, i popoli indigeni dell’Amazzonia sono in lutto. Dai primi casi registrati all’inizio della pandemia – due giovani delle etnie Kokama e Ye’Kuana – la lista è lunga e include anche molti di coloro che hanno fatto la storia del movimento di resistenza indigeno. Come Feliciano Lana, intellettuale e primo artista indigeno ad illustrare, negli anni ‘80, la storia mitica dei “Figli dei disegni che appaiono in sogno”, un clan del popolo Desana dell’Alto Rio Negro, nell’Amazzonia occidentale, al confine tra Brasile e Colombia.

Mentre qualche tempo fa è arrivata sino a noi l’onda di commozione per la morte di Arukà, ultimo rappresentante del popolo Juma, oggi l’Amazzonia piange Carapiru, indigeno Awà (cioè “persona”) di cui il regista italo-brasiliano Andrea Tonacci, scomparso nel 2016, aveva raccontato la storia rocambolesca nel pluripremiato Montagne del disordine. Sopravvissuti entrambi ai massacri e all’invasione delle loro terre mezzo secolo fa, ma non al Covid e al nuovo attacco al diritto di esistere di questi popoli considerati tra i più minacciati al mondo.

Come ha dichiarato l’attivista Celia Xacriabà, “le morti indigene in Brasile non sono soltanto numeri. Ogni indigeno che muore, è una voce che cessa di intonare un canto, una mano che smette di agitare un maracà, ogni morte implica la perdita di conoscenze inestimabili e di una parte della nostra storia collettiva. Seppellire un parente per colpa del genocidio in atto significa sotterrare un corpo che lotta per i diritti”.

Diversi giuristi non hanno esitato a parlare di genocidio istituzionalizzato riferendosi alle negligenze nella gestione della pandemia da parte di Bolsonaro che è arrivato addirittura a impugnare una legge che prevedeva misure emergenziali a favore della tutela della salute indigena, costringendo diversi gruppi a recarsi in città per ricevere assistenza, aumentando così il rischio di contagio. Con la sospensione dei controlli e il nuovo impulso dato alle attività illecite quali il disboscamento per l’attività mineraria, il commercio di legname e l’agrobusiness, i popoli indigeni amazzonici rivivono l’incubo dell’invasione delle loro terre. Mentre bande di garimpeiros attaccano con colpi di arma da fuoco le comunità yanomani e incendiano villaggi mundurukù, nelle piazze dei municipi amazzonici crescono le manifestazioni in loro difesa appoggiate da politici locali, e nel Congresso approdano nuovi progetti di legge tesi ad autorizzare lo sfruttamento minerario anche da parte degli stessi indigeni, con la motivazione che “l’indio non può continuare ad essere povero su una terra ricca”.

Eppure sono passati poco più di trent’anni da quando la diffusione dell’alcolismo, della prostituzione e della malaria nelle terre degli Yanomami ad opera di oltre 40mila garimpeiros sembrava aver già condannato quel popolo di recente contatto con la società nazionale all’estinzione.

Quel pensatore visionario che è Ailton Krenak ricorda così le vittime indigene della pandemia: “Da tempo noi krenak eravamo in lutto per il nostro fiume. Non immaginavo di dover affrontare quest’altro lutto, con la morte dei nostri anziani, i cui saperi erano intimamente legati ai loro corpi, gesti, al loro modo di parlare, raccontare e perfino camminare. La trasmissione di filosofie così complesse ai più giovani richiede un processo lungo che è stato improvvisamente interrotto. Fortunatamente c’è una nuova generazione capace di riscattare l’ancestralità non come cosa del passato ma del qui e ora. Sono giovani indigeni che si stanno sperimentando in campo politico ma anche musicale, letterario e artistico. Mi vengono in mente decine di artisti indigeni che espongono le loro opere in gallerie prestigiose. Li considero miei nipoti, miei figli e sono felice di vederli andare in giro per il mondo, così coscienti di quello che sono e che stanno facendo”.

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