di Giambattista Giangreco

Il 30 luglio è diventato legge l’emendamento del deputato Pd Umberto Buratti, che consente al sindaco di comunicare al Prefetto i nominativi di coloro che sono sottoposti a trattamenti sanitari obbligatori (Tso) per patologie che pregiudichino i requisiti psico-fisici per l’idoneità al porto d’armi. L’istituzione, a cura del Prefetto, di liste o registri nominativi impedirebbe che chi abbia subito un Tso vada in giro a sparare alla gente. Parrebbe un’iniziativa lodevole; in realtà siamo di fronte all’ennesimo provvedimento legislativo inefficace e, cosa ancor più grave, inutilmente discriminatorio. La norma non tiene conto della legislazione che regola il Tso, né delle norme vigenti per l’ottenimento del porto d’armi.

Se l’intento della legge è limitare la possibilità per i soggetti sottoposti a Tso di prendere la licenza per il porto d’armi, va detto che l’essere sottoposto a questa misura non è di per sé indicatore di comportamenti pericolosi, né di disturbi mentali protratti nel tempo, ma di una condizione di disagio specifica e transitoria. Si tratta per l’appunto di un dispositivo sanitario, raramente utilizzato, e inserito in un percorso di cura nei confronti di persone con sofferenza psichica. Inserire il loro nominativo in registri appare ingiustificato, inefficace rispetto agli obiettivi della norma e soprattutto gravemente discriminatorio; si torna indietro di più di quarant’anni, prima della Riforma Basaglia del 1978, che fissava il principio base che il “matto” non è pericoloso a prescindere. Del resto, non ci sono dati da cui emerga una significativa correlazione tra atti criminosi agiti con l’utilizzo di armi e l’essere affetti da patologie psichiatriche.

In Italia, poi, il rilascio del porto d’armi è subordinato alla verifica di condizioni di idoneità psicofisica, con una valutazione psichiatrica. Il certificato di idoneità risulta quindi necessario per il “nulla osta” e va rinnovato ogni cinque anni. La normativa garantisce pertanto un controllo tale da ridurre al minimo la possibilità che una persona con problemi psichici ottenga l’idoneità al porto d’armi. Alla luce di ciò, può l’istituzione di registri nominativi presso le Prefetture ridurre il numero di fatti violenti compiuti con l’utilizzo di armi da fuoco?

Alcuni recenti fatti di cronaca inducono a rispondere “no”, pur avendo influito nel dibattito sull’emendamento Buratti che destituiscono il fondamento: sono tutti stati compiuti da soggetti cosiddetti “normali” che, a quanto risulta, non sono mai stati sottoposti a Tso o ad altri trattamenti di natura psichiatrica. Si pensi al carabiniere che spara alla moglie e alle figlie e poi si suicida (marzo 2018); al giovane che, in possesso della pistola del padre, uccide un anziano e due bambini (giugno 2021); all’assessore comunale “sano” che spara ad una persona “non sana” togliendole la vita (luglio 2021).

Questi avvenimenti dimostrano quanto istituire registri che discriminano cittadini con sofferenza mentale per proteggere la collettività sia il risultato di una mistificazione della realtà. Le origini della violenza agita con le armi da fuoco e la pericolosità sociale a essa connessa andrebbero cercate al di fuori del perimetro della Salute Mentale. L’utilizzo di sostanze stupefacenti, l’abuso di alcol, le condotte delinquenziali e antisociali sembrano essere le cause maggiormente scatenanti. Da non sottovalutare, inoltre, la presenza di situazioni stressanti o comunque a rischio (ad esempio una separazione o la grave malattia di un congiunto).

Come prevenire allora il verificarsi di atti criminosi legati all’uso di armi? Senza discriminare nessuno si potrebbe, ad esempio, modificare la norma che prevede il rinnovo del porto d’armi ogni cinque anni. Si tratta di un intervallo lunghissimo durante il quale molte cose possono cambiare nell’esistenza di un essere umano. Riducendo significativamente questo periodo, sarebbe più facile individuare le situazioni a rischio.

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