Accade nella bella, placida e presunta ricca Verona, nell’anno dei trionfi europei della Nazionale italiana. Sarà casuale, ma le vittorie del calcio ultimamente hanno strane coincidenze. Già la Coppa del Mondo in Germania nel 2006 era arrivata subito dopo il bruttissimo scandalo di Calciopoli, come a coprirne la poco prestigiosa risonanza. Di questi giorni, nel calcio dei problemi, tiene banco la storia triste del Chievo Verona, una società-miracolo almeno dal 2001, spese contenute, bilanci in ordine, successi modesti ma ragguardevoli per le dimensioni della società, a lungo un esempio.

Di colpo, in forza delle sentenze della giustizia sportiva, ci dicono che tutto questo era falso: il presidente sarebbe un incapace e la società gestita malissimo. Si parla di oltre 40 milioni di debiti con il Fisco, ma non sono emersi contemporaneamente casi di malversazione (cosa che, al contrario, accade spesso), né alcun uso improprio o per fini personali del denaro della società. Eppure. Certo, la gloria sportiva non va sempre di pari passo con i contenuti morali, ma se fosse vero il contrario?

Il Chievo è stato recentemente dichiarato “fallito” prima dalla Federazione, con successiva ratifica del Coni, benedizione del Tar e amen del Consiglio di Stato, sulla scorta peraltro inoppugnabile dei debiti accumulati e dell’impossibilità di farvi fronte. Ma se Federazione, Covisoc e compagnia cantante controllano seriamente e regolarmente i bilanci della società, come è possibile che tutto questo debito, accumulato in diversi anni, non sia stato individuato e corretto molto prima dell’irreparabile? Dove era il gioiello, l’esempio che si decantava?

Il dubbio, sfortunatamente, è che non tutti i debiti siano uguali. Ci sono i debiti che in qualche modo vengono ripianati. Poi i debiti che subiscono mutazioni miracolose e si trasformano in quasi-crediti. Ci sono perfino i debiti che “dopo accurate verifiche” non esistono più. Infine, ci sono i debiti dei “fessi”, quelli di quanti non hanno capito le possibili conseguenze dell’etnologia del debito. E quando se ne accorgono è già troppo tardi.

La sensazione è che finché il Chievo-Verona poteva venir annoverato tra gli amici di quelli che comandano nel calcio, tutto andava bene, “Madama la Marchesa”. Le plusvalenze fittizie non saltavano fuori, le compravendite dei giocatori consentivano sempre di coprire eventuali buchi, verosimilmente di vecchia data, data la natura del business-calcio e le dimensioni ridottissime del Chievo. Ai pochi che già non lo sapessero, ricorderemo infatti che il calcio professionistico di serie A è in una condizione permanente di difficoltà economiche, poiché si regge sostanzialmente solo sulle entrate dei diritti televisivi, peraltro suddivise iniquamente, per così dire all’italiana.

Niente guadagni di altra natura, niente seria patrimonializzazione delle società, in compenso costi sproporzionati per gli stipendi di calciatori, dirigenti, allenatori e mediatori. Professionalità manageriale scarsissima. E nel frattempo il sistema-calcio si auto-retribuisce lautamente, prescindendo da ogni performance economica, tutt’altro (in genere se un’azienda non produce profitti, tutti stringono la cinghia; nel calcio capita il contrario, le retribuzioni crescono in senso opposto agli utili).

In questo mondo che muove un’automobile miliardaria (5 miliardi di euro il giro d’affari del calcio nel 2019), guidata da personaggi discutibili, il presidente del Chievo, Campedelli, persona differente per carattere e comportamenti da molti altri presidenti della serie A, da santo è stato repentinamente dichiarato grande peccatore e ora tutti ovviamente gli danno la croce addosso. Ma in un mondo radicalmente scorretto e criminogeno, dove l’illegalità è la regola, certe decisioni, certi provvedimenti suonano veramente male, paiono un’ipocrita scenetta del bue che dichiara l’asino cornuto.

Non stupisce sapere che fintantoché il vento soffiava in poppa, non solo a Verona, oltre agli elogi, al Chievo fioccavano le richieste di favori, le dimostrazioni di amicizia a senso unico. Mentre la biglietteria ordinaria languiva, al contrario, la tribuna vip con l’immancabile buffet a suon di bollicine e risotti era regolarmente strapiena di politici, banchieri, notabili e nuovi amici con pass omaggio, non tutti esattamente sponsor della squadra, ma semplicemente partecipanti e un po’ sfruttatori dei momenti felici. Oggi il Presidente del Chievo non solo non è più l’artefice dei miracoli del passato che pure ci furono, ma è diventato un pària che nessuno può o vuole aiutare, sostenere, memore almeno un po’ dei favori e degli omaggi ricevuti. Una scena già vista e che si ripeterà presto.

Ciò che invece non è per niente normale è il fatto che nel 2021 il calcio professionistico in Italia debba ancora essere gestito – se possibile – peggio dei partiti politici, per quanto riguarda la trasparenza, la veridicità e la sostanziale inattendibilità dei conti. E che un Governo serio possa tollerare che uno sport dall’alto valore educativo come il calcio a livello professionistico continui a essere in realtà il luogo dello scandalo sociale e di non pochi reati, fonte di danni allo sviluppo culturale ancor prima che economico del paese.

Ben poche società di calcio si sarebbero salvate a una seria valutazione delle entrate e delle uscite, se i criteri rigorosi che ora vengono applicati al Chievo Verona fossero sempre stati adottati erga omnes e l’elenco delle squadre di serie A sarebbe ben diverso, probabilmente non ci sarebbe nemmeno il problema di campionati a 16 o 18 squadre, perché i ranghi avrebbero finito inevitabilmente per ridursi da soli. Una siffatta gestione economica del mondo del calcio professionistico non solo è incompatibile con un paese civile, ma è contraria alle leggi e dannosa allo spirito di lealtà e probità che lo sport deve comunicare.

Il calcio non deve essere una bisca. Ben prima di qualsiasi singola squadra è tutta la gestione del calcio italiano che dovrebbe essere radiata e rifondata. Anche se abbiamo vinto i campionati europei.

Ps. Non sono un tifoso del Chievo.

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