È il terzo governo dal sostegno più largo di sempre, nato con la bellezza di 797 voti a favore nei due rami del parlamento: meglio hanno fatto solo Monti nel 2011 e Andreotti nel 1978 (con il governo del compromesso storico, che ottenne la fiducia nel giorno del rapimento Moro). Quella di Mario Draghi sarebbe la condizione ideale per restituire al Parlamento la centralità dimenticata in anni di maggioranze traballanti, messe al sicuro con continue (ed eccessive) blindature delle proposte di legge in Aula. Eppure, sotto questo aspetto, i numeri dicono che l’esecutivo dei migliori non ha portato alcuna discontinuità. Anzi: con le due questioni di fiducia poste sull’approvazione della riforma della giustizia, e con quella posta a Montecitorio ieri pomeriggio sul decreto Pubblica amministrazione, il totale è salito a 13 in nemmeno sei mesi, una ogni 13,39 giorni. Una media identica, anzi leggermente peggiore di quella del Conte II e molto peggiore di quello del Conte I, non accompagnato – però – dal coro di polemiche e accuse di autoritarismo che hanno bersagliato per mesi l’ex premier.

Secondo i dati di Openpolis infatti il governo di Lega e M5s – il primo della legislatura – impose solo 15 fiducie nell’anno e tre mesi di carica, una ogni 30,7 giorni. In numeri assoluti, Draghi l’ha già quasi eguagliato. Il governo giallorosso, invece – in carica per un anno e cinque mesi – ne ha messe 39, una ogni 13,5 giorni. Un ritmo in linea con quello dell’attuale esecutivo: con le attenuanti, però, di una maggioranza ben più risicata (e costantemente minacciata dai veti renziani, soprattutto al Senato) e del fatto di aver dovuto gestire la prima e più pesante fase dell’emergenza Covid. Eppure a Conte – a differenza che all’ex capo della Bce – il ricorso alla fiducia non è mai stato “perdonato” da una folta schiera di commentatori: uno su tutti Sabino Cassese, l’ex giudice costituzionale scelto da molta stampa come interprete autentico del bon ton istituzionale.

“Non capisco perché il Parlamento tolleri questo abuso”, tuonava Cassese in un’intervista al Giornale dopo l’approvazione (con fiducia) della legge di bilancio per il 2021. Il Conte bis, accusava, mostra “disprezzo” per le Camere a cui “mette fretta, strozzando le discussioni”. Parole che descriverebbero bene l’iter della riforma Cartabia, progettata e contrattata tutta al di fuori delle aule parlamentari, ma ratificata in quattro e quattr’otto, con testo blindato, da una Camera convocata addirittura domenica 1° agosto. Sull’eleganza istituzionale di questa scelta, però, nessuno ha trovato da ridire. Nemmeno la presidente del Senato Elisabetta Casellati, che invece – di fronte alle scelte del governo precedente – paventava il “rischio per la democrazia parlamentare“. O le decine di esponenti del centrodestra che a ogni fiducia parlavano di “Parlamento esautorato” o “forzatura inaccettabile”.

Anche la decisione sullo stato di emergenza per il Covid, che il Governo ha prolungato a luglio fino al 31 dicembre 2021, è passata quasi inosservata. Dodici mesi prima, invece, per lo stesso provvedimento – con dati sanitari paragonabili e senza disponibilità di vaccini – l’ex premier fu accusato di “deriva illiberale” (Annamaria Bernini) e di voler “consolidare il governo ed il potere senza regole e controlli” (Giorgia Meloni). “Cose come questa non accadono neanche in Sudamerica, è un’ignominia”, strepitava scandalizzato l’attuale sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto. Persino il ricorso ai famigerati Dpcm (decreti del presidente del Consiglio) per dettare le misure di contenimento del virus, che ai governi passati fruttò una pioggia di accuse di autoritarismo, all’attuale è stato perdonato senza colpo ferire. Maturazione del dibattito pubblico o i classici due pesi e due misure?

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