Il detentore del primato mondiale del salto in alto era diventato un simbolo per il regime del Lìder Màximo, tanto che l'atleta non partecipò ai Giochi di Seul 88 per motivi politici. Un personaggio scomodo fuori e grandioso in gara, che nel 1999 venne coinvolto in uno scandalo per uso di cocaina e poi per nandrolone
Raúl Castro mitraglia una parola dopo l’altra. Ha la voce imbevuta di collera e la faccia stirata da un’espressione di sdegno. “È tutta una macchinazione, una canagliata – dice a un giornalista di un periodico locale – il ragazzo è innocente, è solo una manovra politica da figli di puttana”. La notizia è stata battuta qualche ora prima dalle agenzie internazionali. E ha già fatto il giro del mondo. Bisogna rispondere con durezza. Bisogna rispondere subito. Perché una sconfitta sportiva rischia di diventare una sconfitta politica. Soprattutto a Cuba. È l’agosto del 1999. E i XIII Giochi Panamericani di Winnipeg, Canada, non si sono ancora conclusi. Eppure c’è un verdetto che è già diventato ufficiale. Javier Sotomayor ha vinto la medaglia d’oro nel salto in alto.
Ma qualche giorno più tardi ha perso molto più del titolo sportivo. I risultati antidoping hanno raccontato un’altra verità. Il campione cubano è risultato positivo alla cocaina. Il suo successo è carta straccia. La medaglia una bugia. La notizia lascia tutti a bocca aperta. Atleti, tifosi, cubani. Ma soprattutto il Governo dell’isola. Perché quel ragazzo di poco più di trent’anni era diventato uno spot in calzoncini e canottiera per lo stato socialista dei lavoratori. Ogni successo di Sotomayor era il successo dell’ideale di Cuba, in una narrazione che non ammetteva deroghe. I giornali seguono la vicenda, annunciano aggiornamenti, promettono esclusive. Perché non c’è niente di più maestoso di una divinità che cade nella polvere. Sotomayor si professa innocente. “Quella sostanza l’ho vista soltanto nei film”, giura. “Semplicemente non è ho bisogno per saltare i due metri e trenta. E non ho l’abitudine di prendere neppure vitamine o ricostituenti consentiti”, assicura. “Sono stato molto male. Ho dormito poco, pensando a tutte le mie mosse, a come possa essere accaduto. Ho dovuto ricorrere a uno psicologo. Mi preoccupa la mia immagine, la mia dignità, l’onore sportivo di tanti anni. Non posso sopportare l’idea che ci sia anche solo una persona che possa dubitare”, afferma.
Javier non ha nessuna voglia di arrendersi. Anche se ha già capito tutto. Anche se ha già capito che la sua parabola sta per esaurirsi. Il suo declino si era già palesato in pista. Perché la caviglia sinistra, quella sulla quale poggiava i suoi 85 chilogrammi, era diventata un corpo estraneo. Il dolore era straziante. E non riusciva mai a silenziarsi. Saltare era diventato uno strazio. Così come da giovane era uno strazio il non poter saltare. Il suo è un talento precoce. A quindici anni salta già sopra i due metri. José Godoy lo nota e decide di allenarlo. E di educarlo. José ordina. Javier esegue. Si completano, si migliorano, si affezionano l’uno all’altro. La crescita è costante. A sedici anni salta a 2.17. Dodici mesi dopo è già a 2.33. Non serve sforzarsi molto per capire che quel ragazzino non diventerà un campione, ma un tiranno. Le Olimpiadi di Los Angeles del 1984 sono la sua prima occasione persa. Cuba non partecipa. Motivi politici. Quei Giochi vanno boicottati. Sotomayor fa spallucce. Ci saranno altre occasioni. Ci saranno altre medaglie. Lui continua a saltare, ad aggiungere centimetri ai suoi record personali.
Nel 1988 è l’uomo da battere. A Salamanca, a settembre, vola a 2.43. È il nuovo record del mondo. Solo che la Storia si mette ancora di traverso. Le Olimpiadi si svolgono a Seul. E Cuba non ha nessuna intenzione di partecipare all’evento in Corea del Sud. Fidel Castro non vuole sentire ragioni. E spiega il suo punto di vista a Gianni Minà. “Il Comitato Olimpico ha scelto un luogo così sbagliato per realizzare queste Olimpiadi, nessuno sa quello che succederà – dice il Líder Máximo – Cuba é stata capace di vincere medaglie in ogni Olimpiade e in ogni campionato del mondo a cui ha partecipato. Il nostro é soltanto un principio, il tentativo di dimostrare che purtroppo lo sport viene usato politicamente, anche quando si afferma il contrario. E se l’esempio lo dovremo dare noi, lo daremo, anche se forse saremo gli unici a essere puniti per questa decisione. Ma certo la scelta del Comitato Olimpico é la più sbagliata che si potesse immaginare”. La diplomazia prova a cucire lo strappo. Anche perché una competizione senza il suo primatista mondiale perderebbe buona parte del suo fascino. Qualcuno ipotizza un salvacondotto piuttosto particolare.
Il cubano potrebbe partecipare a titolo personale, così come già successo alle Olimpiadi di Mosca. L’idea, però, non piace a Javier. “Sono pronto ad assistere alle Olimpiadi dalla poltrona di casa mia”, annuncia qualche giorno dopo. Ed è così che andrà la storia. A marzo del 1989, a Budapest, eguaglia il suo primato. Un anno più tardi è a un passo dall’addio. Un cancro spegne José Godoy. Il dolore è troppo grande. Sotomayor si sente un buco nell’anima. Ha voglia di lasciare tutto, di ritirarsi. A fargli cambiare idea ci pensa l’affetto di Castro. E di tutta l’isola. Javier continua a saltare. Continua a vincere. Nel 1992, a Barcellona, la medaglia d’oro è finalmente sua. La sua traiettoria è destinata a salire ancora. Un anno dopo è di nuovo Spagna. È di nuovo record. Sotomayor sale a 2.44. Quando torna a terra sorride alla telecamera e si lancia in una dedica particolare: questo successo lo dedico “al mio Governo, a mio figlio. E, anche, al popolo di Salamanca: qui ho fatto il primo record, qui la gente mi ferma per strada, mi saluta, mi riconosce. Tornerò”. Qualche settimana dopo vince i Mondiali di Stoccarda. Gli organizzatori mettono in palio anche una Mercedes. Sotomayor se la porta a Cuba, accelera lungo le strade dell’isola. Ma dura poco. Qualcuno inizia a lanciare sassi contro la carrozzeria dell’auto. Meglio tornare indietro. Meglio non discostarsi troppo dal tenore di vita dei suoi connazionali. Javier vince altri 4 titoli Mondiali. Sembra impossibile da fermare. Almeno fino all’agosto del 1999. Fino alla positività per cocaina. La Federazione internazionale lo squalifica per due anni. Cuba lo difende a oltranza. Alla fine la pena viene ridotta a un anno. Vuol dire che Sotomayor può partecipare ai Giochi di Sydney. Chiude con l’argento, ma la fine è sempre più vicina. La caviglia lo tormenta. La stanchezza diventa piombo. Il 12 ottobre del 2001 annuncia il suo addio. “Gli stimoli sono esauriti”, annuncia. “Ho vinto tutto, ho segnato un’epoca e so che nessuno mai batterà il mio primato”, afferma. Sembra un finale tutto sommato lieto. Ma non lo è. Perché neanche un mese dopo arriva un’altra rettifica. Sotomayor era stato trovato positivo al nandrolone in un meeting del 14 luglio. Prima la cocaina. Ora il doping. Due episodi che avrebbero portato a un epilogo piuttosto triste: la squalifica a vita. Un salto verso il basso per il soldato di Castro che era abituato a toccare il cielo.