Un uomo avanza lentamente verso il centro della stanza. Il piede sinistro davanti al destro. E tutto intorno a lui si spengono le voci. Il piede destro davanti al sinistro. E tutti gli occhi si appuntano intorno al suo completo chiaro. L’uomo si mette a sedere su una poltroncina di finta pelle. I suoi capelli sono ormai radi, la pelle grinzosa, le mani sottili. Un sorriso increspa le sue labbra mentre le dita si attorcigliano intorno a un microfono. Sono tutti lì per lui. Per ascoltare quella storia. Ancora. E ancora. E ancora. L’uomo si schiarisce la voce. Inspira. Espira. Poi attacca la narrazione. Il suo è un racconto epico, quasi omerico. È una storia che si è trasmessa di bocca in bocca. Per decenni. Le vicende personali di uomini e di donne che diventano collettive, patrimonio condiviso, orgoglio nazionale. L’uomo torna indietro a una data lontana, con i contorni ormai sbiaditi. È l’11 luglio 2021. È il giorno in cui tutto ha avuto inizio.
Un ragazzo impugna stretta la sua racchetta mentre le sue scarpe pattinano sull’erba verde di un tempio chiamato Wimbledon. Ha venticinque anni e tutti lo guardano come se fosse il primo uomo sbarcato sulla Luna. Per qualcuno è troppo. Per altri troppo poco. Perché mai nessun italiano si era spinto fin lì, fino a giocarsi la finale del torneo più antico della storia del tennis. Le colonne d’Ercole sono state superate. Una nuova era può essere finalmente scritta. Il ragazzo colpisce forte una pallina gialla. La guarda picchiare contro il terreno per poi schizzare via. È lontana. È imprendibile. Flette l’avambraccio destro e chiude il pugno in un’esultanza morigerata. Perché quello è il punto del 7 a 6. È la palla che gli consegna il primo set della partita. Sembra l’inizio di un sogno. Invece è l’alba di un piccolo incubo. Davanti a lui c’è Novak Djokovic. Il numero uno al mondo. Il cannibale che divora un avversario dopo l’altro. Il serbo inizia un’altra gara. Diventa soverchiante. Diventa semplicemente sé stesso. Il ragazzo si oppone ma non può niente. Perde un set. Perde due set. Perde tre set. Perde la partita. Così si mette a sedere e aspetta. Fino a quando una voce non pronuncia il suo nome. “Matteo Berrettini“, sputa fuori l’altoparlante. Il ragazzo si alza, saluta il pubblico, si batte una mano sul cuore. Afferra un piatto d’argento e lo ostende al pubblico. Sulla sua faccia non c’è segno di rimpianto, ma di soddisfazione. È il rovesciamento esatto di una narrazione sportiva che si basa sull’accumulo di vittorie, che condanna il secondo posto all’oblio. Ora invece con la sua serenità Berrettini sta dimostrando che l’importante è il viaggio, non l’arrivo. Che ci può essere gloria anche nella sconfitta.
L’uomo si ferma qualche secondo. Prende fiato. Poi ricomincia il suo racconto. Si sposta avanti di qualche ora. Perché a venti chilometri di distanza c’è un altro prato, c’è un’altra storia, c’è un altra cattedrale laica. Si chiama Wembley. Qualche anno prima quello stadio era stato raso al suolo e ricostruito. Ma non erano riusciti a plastificarlo, a trasformarlo in un impianto fighettino come gli altri. La storia era rimasta ostinatamente appicciata a quel luogo. Un bene. O forse no. Perché quasi trent’anni prima, su quell’erba verde, un altro uomo si era visto portare via un sogno grande come una vita intera. Indossava una maglia bianca con un numero dieci blu incollato sulla schiena. La sua Sampdoria contro il Barcellona di Hristo Stoichkov. Nella finale di Coppa dei Campioni. Una parità totale che era stata incrinata da un calcio di punizione di Rambo Koeman nei tempi supplementari. Una sconfitta che era diventato sortilegio, maledizione. Il problema è che come diceva Marx la storia si ripete sempre due volte. La prima come tragedia. La seconda come farsa. Un pensiero che deve essersi materializzato nella testa di Roberto Mancini anche in quella sera di luglio dell’Anno Domini 2021. La sua Italia contro l’Inghilterra. A Wembley. Nella finale degli Europei. Lo stadio emanava un’aura sinistra. Il palcoscenico ideale per una nuova caduta. Il luogo perfetto dove versare altre lacrime salate. Gli azzurri come la sua Samp in maglia bianca. Sfavoriti. Sottovalutati. Vittime sacrificali. Per gli addetti ai lavori, per quelle migliaia di tifosi che da settimane non la smettono di ripetere “It’s coming home, it’s coming home“.
Insolenza e arroganza mescolate insieme che qualcuno voleva spacciare per segno premonitore. I demoni di Roberto iniziano a ballare in mezzo al campo. Dopo appena due minuti. L’Inghilterra è già in vantaggio grazie a un gol di Shaw. Quel motivetto diventa sentenza. Almeno fino a quando Bonucci non centra il pareggio. È il plot twist. Inizia una nuova partita. Qualcuno comincia a cantare un’altra canzone. Cambia solo una vocale. Ma il concetto è stravolto. Nei supplementari Chiellini trattiene Saka per il colletto. La maglia si allunga a dismisura fino a quando l’inglese non finisce a terra. È un’immagine che diventa meme. Una foto che fa il giro del mondo. E che racconta la fame di vittoria di una Nazionale. Anzi, di una Nazione. Quando si va ai rigori in molti hanno già intuito il finale. Donnarumma diventa una calamita. Para il tiro di Sancho. Para il colpo di Saka. Quando si rialza non esulta. Perché non ha capito che gli azzurri sono campioni d’Europa. Anarchy in The UK. Proprio come cantavano i Sex Pistols.
Roberto Mancini ha sovvertito la storia, ha cancellato il passato. E lo ha fatto rovesciando una volta per tutte la narrazione dell’Italia patria del catenaccio, del gioco speculativo. La sua non è una Nazionale, è un club che cerca di imporre il proprio gioco. Contro tutti. E quando non ci riesce non perde la testa. È la dimostrazione che un gruppo non è la somma algebrica dei suoi componenti. Perché può diventarne addirittura la moltiplicazione. L’uomo fa un’altra pausa. Beve sorso d’acqua. Sorride. Sa che deve andare avanti. Perché la storia non è ancora finita. Anzi, è appena cominciata. L’uomo riattacca a parlare. Di nuovo indietro nel tempo. Di nuovo a distillare emozioni. Stavolta a fare da sfondo al racconto non c’è più l’Inghilterra, ma il Giappone. Il 23 luglio del 2021 si alza il sipario sulle Olimpiadi di Tokyo. Sono Giochi della resistenza. Sono gare volute a tutti i costi. Si svolgono in stadi deserti, con un silenzio che diventa assordante. Ma sono soprattutto un tentativo di riprendersi la vita dopo un anno e mezzo di pandemia. All’inizio l’obiettivo degli azzurri è piuttosto generico. Bisogna fare bene. O almeno non sfigurare. Nessuno sa ancora che invece stravolgeranno un’estate intera. Giorno dopo giorno. Sportivi che diventano supereroi, che fanno venire voglia di esultare per discipline che per molti tifosi sono solo un amore estivo. Prima di ritornare al calciomercato. Prima di tornare alle discussioni da bar.
Stavolta la sport va oltre la storia. Irrompe nella leggenda. Diventa mito fondante di una nuova società, di un nuovo senso di appartenenza. La vittoria diventa schiava di Roma. Nel vero senso della parola. Ogni successo assomiglia a un romanzo. Perché ha una vicenda più profonda da raccontare. Parla di quotidianità, di sacrifici, di paure, di dubbi, di lotta. Contro gli altri. Contro se stessi. Sofferenze che poi vengono riscattate con una medaglia. O con l’ingresso nella leggenda. È successo con Federica Pellegrini, che ha dimostrato che quel soprannome di Divina, forse, le sta addirittura un po’ stretto. Perché a Tokyo è diventata la prima nuotatrice a qualificarsi per cinque volte Olimpiadi consecutive alla finale dei 200 sl. L’ultima sua grande gara non l’ha portata a medaglia. Ma non serviva. La sua dimostrazione di superiorità era già arrivata da un pezzo. In quella vasca si è materializzato un altro successo. Lei che per anni aveva spaccato l’opinione pubblica adesso aveva avuto tutto un Paese a soffiare sulle sue ali. D’altra parte lo diceva anche Flaiano: “Gli italiani sono sempre pronti a correre in soccorso dei vincitori”. Mai come in questa estate gli italiani si sono divertiti a sovvertire i pronostici, a far invecchiare gli almanacchi. Con le telecamere a rimbalzare da un sorriso a un altro, con le casse a pompare l’Inno di Mameli. È stata l’estate in cui abbiamo abbracciato nuovi idoli, in cui per qualche istante abbiamo stretto amicizia con qualche sconosciuto.
Una nazione intera ha scandito i loro nomi. Quello di Irma Testa, la prima pugile italiana a vincere un bronzo olimpico, quello di Gregorio Paltrinieri, due medaglie nonostante la mononucleosi. Per poco più di due settimane l’Atletica è stata la regina degli sport. E ha raccontato storie straordinarie, di alberi che sembravano essere cresciuti storti e che invece sono diventati imponenti. Come Gimbo Tamberi, l’altista che 5 anni fa sembrava destinato a vincere l’oro a Rio 2016. Poi il destino si era messo per traverso. In un meeting aveva stabilito il record italiano. Ma si era anche procurato una lesione al 50 per cento del legamento deltoideo della caviglia sinistra. Niente giochi, niente medaglia, niente sorrisi. Solo una gamba chiusa in un gambaletto in attesa di tempi migliori. Gianmarco ha stretto i denti, si è allenato. Sotto il sole caldo. Sotto il vento gelido. A Tokyo si è tolto la barba. Tutta. Non solo su metà viso come faceva in precedenza. Anzi, ha deciso di ridere in faccia alla scaramanzia. Si è portato in pista il vecchio gambaletto. Serviva a ricordargli quello che aveva sopportato, che ora era tempo di prendersi quello che gli era stato tolto. E stavolta c’è riuscito. Ha vinto l’oro, si avvolto in una bandiera, poi si è girato sulla pista di atletica. Lì ha visto Marcell Jacobs.
Stava correndo la finale dei cento metri con una collana d’oro e con l’aria sicura. Ed è con quella iconografia anni Novanta che è entrato nell’eternità. Lui, il ragazzo di El Paso che appena nato si era trasferito a Desenzano del Garda, il ragazzo cresciuto con i poster di Carl Lewis e Andrew Howe attaccati alle pareti della camera. Marcell aveva iniziato nel salto in lungo. Ma le sue ginocchia non hanno retto. Serviva un piano di riserva. Che ha trovato nella specialità che più fa sognare, quella che si brucia in fretta, che dura giusto il tempo di un sospiro. Quando si è trovato davanti Gimbo, Marcell ha rallentato. E lo ha abbracciato. Un legame che è diventato simbolo, proiezione collettiva. Un oro incredibile, una medaglia che scrive la storia di un movimento intero. Ma a Marcell non bastava. Così ci ha riprovato. Nella 4×100. Una gara insidiosa, dove un piccolo dettaglio fa la differenza fra la vittoria e la figuraccia. È necessario fidarsi l’uno dell’altro, trasformare quattro corpi in un organismo unico. L’idea di arrivare a medaglia sembra già fantascienza. Poi gli azzurri entrano in pista. Il suono dello start deflagra nell’aria. Lorenzo Patta inizia a correre. Lui nella vita voleva fare il calciatore. Giocava esterno d’attacco. L’atletica è l’altra grande passione. Ma alla sua età è impossibile la monogamia sportiva. Si alterna. Gioca e corre. Poi si convince. I calci al pallone sono finiti. Il suo futuro è in un altro sport. Lui è l’ultimo aggregato al quartetto. Non può restare indietro. Non può fare brutte figure. Così quando lascia il testimone nelle mani di Jacobs vive come una liberazione.
Marcell dimostra che il suo oro non è un caso. Macina metri, divora avversari. Poi fa partire Fausto Eseosa Desalu. È nato in provincia di Cremona da genitori nigeriani. Anche lui aveva iniziato con il calcio, ma anche lui ha lasciato perdere. Da piccolo si arrabbiava con sua madre perché non gli comprava le scarpe firmate che indossavano i suoi amici. Poi crescendo ha capito il valore dei soldi. E ha ripagato i sacrifici dei genitori con una promessa: “Farò qualcosa di straordinario nella mia vita”. Faustino è stato di parola. ll suo giuramento si compie quando lascia il testimone a Tortu. Filippo è il grande deluso di questa spedizione azzurra. Ha visto Jacobs frantumare il suo record. E lui non è riuscito a qualificarsi alla finale dei cento metri. Ma questa è un’altra storia. Ora Tortu corre, un piede davanti all’altro, un respiro dopo l’altro. Recupera metri. Uno dopo l’altro. La Gran Bretagna è sicura di aver vinto. Perché non si è accorta di Filippo. “Oh no, ancora l’Italia”, urla il commentatore della tivvù di Sua Maestà. Perché è vero. Tortu si butta in avanti, con quel movimento che qualche anno fa gli aveva procurato la rottura di entrambe le braccia e ora invece lo proietta nella storia. È un’oro da impazzire, qualcosa di assolutamente inconcepibile fino a qualche giorno fa. È un successo che apre una dimensione tutta nuova. Così come ha fatto Luigi Busà, l’ex ragazzo preso in giro dai bulli per via del suo corpo pingue che ora è diventato campione olimpico di karate. Storie che fanno breccia nei cuori, che generano emozioni.
Ora l’uomo si ferma. È stanco. Ha aperto i cassetti della memoria, ha riannodato i fili di storie lontane nel tempo. È arrivato il momento di fermarsi. L’uomo si alza, ringrazia e saluta. Poi imbocca l’uscita con un sorriso sulle labbra. Quell’uomo potrebbe essere Giovanni Malagò, uno dei grandi artefici del successo di quell’estate del 2021 che ha stravolto lo sport italiano, che lo ha portato oltre i propri limiti. Ma potrebbe essere anche ognuno di noi fra qualche anno. Uomini e donne che hanno imparato che ci si può commuovere davanti allo schermo di una tv. Fratelli e sorelle d’Italia per una volta uniti davvero grazie al miracolo dello sport.