Troppo spesso, quando scriviamo sulle vicissitudini estere – pur riportando testimonianze o più pragmaticamente articoli della stampa locale – trascuriamo ciò che ne pensa “el hombre de la calle“, The Ordinary Man, che quegli eventi li vive nel quotidiano sulla propria pelle, pagando di tasca propria.
Rileggendo i commenti sui social del giornale dopo il primo post su Cuba, ho capito di aver commesso lo stesso errore. Chi mi ha massacrato non era un “gusano” (verme) di Miami, bensì parte di quei cubani che vivono e lavorano in Italia, dopo aver lasciato gli affetti in patria, ai quali prestano voce. E che vanno ascoltati con attenzione.
Chi sono i Gusanos
Il Movimento di San Isidro prende il nome dal barrio de San Isidro nella capitale, dove si concentrano artisti cubani e accademici che nel 2019 protestarono contro il Decreto 349 – il quale subordina ogni iniziativa artistica all’autorizzazione preventiva dal ministero della Cultura – e contro l’arresto del fondatore del gruppo Manuel Alcantara. Un anno dopo, un secondo membro, Denis Solis, fu condannato a otto mesi, mentre altri furono rilasciati.
In seguito a nuove proteste che attrassero centinaia di persone, Fernando Rojas, vice-ministro della Cultura, promise libertà d’espressione per il gruppo, ma venne sconfessato da Diaz Canel. Nel frattempo, alcuni rapper registrarono un pezzo destinato a diventare la colonna sonora delle manifestazioni dell’11 luglio 2021, “Patria y Vida”. Diaz Canel definì tutto ciò una manovra orchestrata dagli Stati Uniti per destabilizzare Cuba, avallando di fatto l’intervento a favore di San Isidro del Segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, e dell’anti-castrista per eccellenza Marco Rubio, che colsero l’occasione al volo per rivendicare la “democrazia per Cuba”, in realtà loro cavallo di Troia per tentare di riprendersi l’isola.
Non solo politica: un’altra componente del conflitto è razziale
Come negli Stati Uniti, la maggior parte dei detenuti a Cuba è di colore. Le rimesse dei cubani dall’estero privilegiano soprattutto i connazionali bianchi. Pochi giorni prima dell’11 luglio, Hansel Hernandez, nero, venne ucciso dalla polizia per essersi ribellato all’arresto. L’unico morto durante le proteste finora è un altro nero, Laurencio Tejada. Non solo: la madre, saputo dell’uccisione del figlio, si è suicidata. Si sono versati fiumi di inchiostro virtuale sulla morte di George Floyd negli Stati Uniti e sul Black Lives Matter ma, tranne Il Post, nessuno ha scritto nulla sui due e sulla povera madre.
Non è solo la polizia; specie a La Habana, il razzismo è una piaga diffusa: durante i miei passati soggiorni nella capitale, vivevo con una ragazza nera, in un condominio popolare, ed ero lo zimbello della gente, io, bianco e italiano, che stavo con una “puta negra”. La polizia ci fermava quasi ogni giorno, anche se lei non era una jinetera, aveva i documenti a posto e lavorava.
Parlando di autodeterminazione del popolo cubano e di chi ne rivendica la paternità, in Italia l’intellighenzia nei suoi più fulgidi rappresentanti appare schierata con il regime. Lo stesso dicasi per le associazioni di solidarietà come Amicizia Italia-Cuba, che nacque nel 1961 dopo la tentata invasione degli Stati Uniti a Playa Girón. Pur se l’iniziativa di portare aiuti nell’isola rimane lodevole, è però un mistero come si possa appoggiare acriticamente un sistema di governo che tuttora considera il Partito Unico come sola forza politica riconosciuta, senza alcuna opposizione interna degna di nota. Persino in Venezuela l’opposizione con a capo Juan Guaidó è attiva, fin troppo se si considera che durante le elezioni 2020 ha boicottato il voto dopo l’auto-proclamazione di Guaido di presidente ad interim; un colpo di mano che 50 paesi occidentali hanno appoggiato.
Come si può definire un popolo auto-determinato quando non gode della libertà di voto? A tutto ciò si aggiunge, ancora una volta, l’aggravante economica: molti ritengono che Cuba debba rimanere allineata alla politica cinese. Al di là dell’acronimo (Pcc identifica sia il Partito Comunista cubano che cinese) le due nazioni non hanno nulla in comune, soprattutto se guardiamo all’economia: Cuba non è in grado, per la sua cronica incapacità produttiva, di creare un mercato interno per i più poveri con prodotti a basso costo – che possa sopperire all’impossibilità per costoro di fare acquisti nei carissimi supermarket che si basano sulla merce importata – come al contrario fa la Cina che produce di tutto. Inoltre il salario minimo a Cuba è di 40 dollari al mese, mentre in Cina varia secondo le località, da 161 a 348 dollari.
Ha scritto bene L’Antidiplomatico, giornale comunista tra l’altro, che riporta le memorie di un italiano che viveva a Cuba: “Cuba dopo la Rivoluzione non ebbe uno sviluppo industriale e le scarse fabbriche erano colme di macchinari sovietici che alla rottura di un pezzo cessavano di produrre, poiché il ricambio non veniva rispedito dall’ex Urss, dove ormai era tutto privatizzato e quel pezzo non esisteva più. In quella situazione il Paese non aveva nessuna capacità per concepire una produzione pianificata; in più la sospensione di qualsiasi rifornimento energetico – in primis il petrolio – determinò la paralisi completa del già precario sistema produttivo. […] Per non farsi mancar nulla, con la legge Torricelli del 1992 (Cuban Decorati Act) e con la Hulms-Burton del 1996, Cuba subì anche un inasprimento del blocco statunitense […] in pieno Periodo Especial, centinaia di persone invasero il Malecon, protestando per la sofferenza alimentare che il Paese stava vivendo in quegli anni. Quella fu la prima grande protesta a Cuba, e rimase l’unica fino all’11 luglio di quest’anno. […] La tensione si alzò improvvisamente e iniziarono scontri nelle strade, finché Fidel si presentò in mezzo alla folla mettendosi a parlare, e alla fine la gente si calmò”. Esatto, il bubbone è scoppiato di nuovo, ora che manca il carisma di Castro, e Diaz Canel non è in grado di rimettere insieme i cocci.
A livello produttivo, le cose non sono migliorate nel nuovo millennio; malgrado i buoni rapporti che Cuba ha sempre avuto con la Cina e il Brasile di Lula e Dilma Rousseff, nell’isola non sono arrivati né macchinari moderni né tantomeno il “know how” per imparare a fare da soli. Con tutta la canna da zucchero che c’è nell’Oriente cubano si poteva provare a produrre bio-carburanti come in Brasile, così come in Bolivia tedeschi e cinesi portarono la tecnologia per estrarre il litio dal sale, e Morales riuscì a trovare un compromesso con i minatori formando cooperative a partecipazione statale e dimezzando la miseria. A Cuba non si è voluto neanche estendere l’allevamento bovino ai privati, così come non si è consentita la liberalizzazione della pesca, che per un’isola è un controsenso.
Per cui, etichettare le proteste come “controrivoluzionarie” e fare di ogni erba un fascio attribuendole in blocco ai gusanos di Miami non risolverà i problemi. La calma apparente dopo la prima tempesta non illuda, poiché il malcontento popolare esploderà di nuovo, prima o poi. I cubani sopravvivono anche cucinando cáscaras de plátanos (la buccia delle banane) se occorre. Ma sono stufi di rinunciare ancora alla libertà di scegliere – magari sbagliando, anche se cadere dalla padella del socialismo reale nella brace del neo-liberismo Usa sarebbe un errore fatale – e di sentirsi dire dagli altri cosa è meglio per loro.
Photo credit © F.Bacchetta: (Santiago, esibizione open di ginnaste)