Si tratta di cittadini afgani che hanno lavorato per anni con l'esercito italiano di stanza a Herat. Il ritiro accelerato delle truppe Nato non ha consentito di metterli in salvo. Duecentoventiquattro persone, con le relative famiglie, sono state portate nel nostro Paese. "Ma il numero di chi ha collaborato con noi arriva a 400-500 unità"
“Non abbandoneremo il personale civile afgano che ha collaborato con il contingente italiano ad Herat, né le loro famiglie”. Era l’8 giugno e il ministro Lorenzo Guerini pronunciava queste parole proprio dalla città afgana che da ieri è nelle mani dei talebani. Il numero uno della Difesa esprimeva lo stesso concetto, nell’informativa al Senato sulla conclusione della missione italiana, 16 giorni dopo: “Chi lavora con noi non viene abbandonato”. Si riferiva alle decine di persone (interpreti, personale impegnato nel supporto alla logistica, nel supporto agli ufficiali di collegamento e così via) che per anni hanno lavorato gomito a gomito coi soldati italiani. E che nelle promesse del governo italiano avrebbero dovuto godere di protezione da parte del nostro Paese. Tradotto: essere portati in salvo prima che la situazione degenerasse. Ma così non è stato. Almeno, non per tutti.
LA CADUTA DI HERAT – Da giovedì 12 agosto i talebani stanno diffondendo video e foto dalla città che per due decenni è stata presidiata, insieme all’omonima provincia, dal nostro esercito. Gli jihadisti, kalashnikov e lanciarazzi in spalla, avanzano indisturbati sotto la Grande moschea: la legge della Sharia ha sconfitto Ismail Khan, il “leone di Herat”, eroe del conflitto contro i sovietici e signore della guerra, catturato dalle milizie islamiste dopo essere stato tradito dalle forze di sicurezza. Così il destino per i cittadini afgani che hanno lavorato per l’Italia è segnato. E somiglia molto a quello che veniva riservato agli infedeli da Daesh, in Siria e in Iraq: “Sotto il controllo talebano è praticamente impossibile che abbiano speranze di salvezza – commenta Claudio Bertolotti, direttore di START InSight e ricercatore dell’Ispi esperto di Afghanistan e terrorismo – nella prima avanzata dei talebani, venivano diffusi filmati in cui sia i membri delle forze armate sia i collaboratori civili, impiegati nei vari distretti, venivano torturati e uccisi. Purtroppo anche per i familiari ci sono conseguenze: le mogli e le figlie sopra i 12 anni vengono date in sposa ai combattenti”.
LA PROMESSA MANCATA – Come si è arrivati a questo punto? Già in aprile, di fronte ai successi militari jihadisti, si parlava di garantire asilo ai collaboratori afgani. “Sarà assunta ogni iniziativa idonea a riattivare, anche sotto il profilo finanziario, i meccanismi di protezione già efficacemente sperimentati”, diceva Guerini alle commissioni congiunte di Camera e Senato. Così, nelle settimane successive, è stata avviata l’operazione Aquila, diretta dal Comando Operativo di Vertice Interforze, comandato dal generale Luciano Portolano, con lo scopo di trasferire in Italia i collaboratori e i relativi familiari. Sempre da Herat, in quel famoso 8 giugno, il ministro assicurava che “circa 270 unità sono già state identificate, e proseguono gli accertamenti su altri 400”. E infatti, nella già citata informativa a Palazzo Madama, lo stesso ministro dava notizia del rimpatrio, già avvenuto, di 224 collaboratori e delle relative famiglie. “L’impressione è che i nuclei familiari siano superiori a quel numero e si avvicinino alle 400-500 unità – spiega Claudio Bertolotti – qualche giorno fa avrebbero potuto essere spostati a Kabul per via aerea, ma ora è troppo tardi: la maggior parte degli aeroporti è sotto il controllo talebano e Herat non è più raggiungibile. Questo vale anche per i collaboratori che hanno lavorato per altri Paesi membri della Nato, come la Spagna”. La svolta, in senso negativo, è arrivata col ritiro delle truppe dal territorio afgano. “Non vorrei chiamarla fuga, diciamo che è stato un ritiro più che accelerato. Ciò ha comportato l’impossibilità di verificare l’identità delle persone che potessero godere veramente della protezione, in questo caso, italiana”. In pratica, c’è chi è stato imbarcato in tempo su un aereo e chi no. “Ma non c’è stata una responsabilità precisa del nostro governo – continua Bertolotti – a lasciare il Paese è stato tutto il contingente Nato. I membri dell’Alleanza atlantica prendono le decisioni all’unanimità. In più, hanno preso atto della risoluzione degli Stati Uniti. Ci sono state richieste da parte di organizzazioni non governative, è vero, ma a livello internazionale gli accordi giuridici prevedono la relazione tra il blocco Nato e l’Afghanistan, e non tra i singoli Paesi e l’Afghanistan”.
IL FUTURO NERO – Oltre a Herat, ieri i miliziani islamici hanno conquistato anche Kandahar, seconda e terza città del Paese. Ma oggi l’avanzata prosegue, tanto che Kabul sembra avere le ore contate. “Concentreranno le forze su Mazar-i Sharif e poi marceranno verso la capitale, che potrebbe capitolare senza combattere“, analizza Bertolotti. “Ieri l’ambasciatore Ettore Sequi ha detto che i talebani dovranno rispettare i diritti conquistati dai cittadini afgani nel corso di questi anni, pena l’ipotesi di sanzioni. La verità è che si tratta di una minaccia che non tocca minimamente i talebani. Semmai, qualora venissero imposte, colpirebbero gli strati di popolazione più povera. Da domani dobbiamo aspettarci una narrativa molto efficace dal punto di vista comunicativo, e cioè che la jihad sconfigge l’esercito più potente del mondo e i suoi alleati. A ciò potrebbe seguire un’ondata emulativa, soprattutto nel Sahel, che potrebbe dare nuova carica ai gruppi terroristici“.
IlFattoQuotidiano.it ha cercato di contattare il ministero della Difesa per un commento sulla vicenda, ma non ha ottenuto risposta.
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