È un gran bugiardo, l’ineffabile Walter Ulbricht, quando il 15 giugno del 1961 dichiara che “nessuno ha intenzione di costruire un muro a Berlino”. Una spudorata menzogna. Il capo di Stato della Germania Orientale, nonché segretario del Partito Socialista Unitario della Germania, briga da mesi con “il grande fratello sovietico” Krusciov perché venga eretta una barriera che divida l’Est dall’Ovest.

È una questione non soltanto ideologica, o strategica nel quadro generale della Guerra Fredda. È soprattutto sociale, economica, politica. Dal 1949 al 1961, sono stati più di 2,6 milioni i tedeschi orientali che, appena hanno potuto, se la sono filata all’Ovest. E poi c’è che Berlino è diventata la “vetrina” dell’Occidente libero e della sua opulenza. I russi non lo tollerano. A marzo, durante una riunione del Patto di Varsavia, Ulbricht propone di costruire una imponente barriera di filo spinato per dividere Berlino. I russi temporeggiano. Temono sia prematuro. Suggeriscono all’ungherese Janos Kadar e al rumeno Gheorghiu Dej di stoppare Ulbricht.

Ma sono tempi assai difficili. La crisi tra Usa e Urss è ai massimi livelli di tensione. La dottrina militare che impera in quei mesi è quella della distruzione reciproca. Gli Stati Uniti hanno fatto già un migliaio di esperimenti atomici, i russi settecento. Nel libro On the Beach di Nevil Schute si immagina un mondo devastato dal conflitto atomico, i pochi sopravvissuti, a bordo di un sottomarino, arrivano in Australia, ma ormai li attende solo la fine dell’umanità. Il romanzo diventa un film, L’ultima spiaggia. I ricchi americani si costruiscono rifugi antiatomici, anche a Milano qualcuno li imita.

Il 6 luglio è il Cremlino che sollecita Ulbricht perché costruisca quanto prima quella barriera proposta a marzo. Il capo della Ddr non si fa pregare. Il piano – nome in codice “Rose” – è già pronto sin nei minimi dettagli. Sovrintende Eric Honecker, il segretario alla Sicurezza. Lo coadiuvano otto alti funzionari della Ddr. Ma è Erich Meise, capo della famigerata Stasi (il servizio di sicurezza più efficiente dell’Est, dopo il Kgb) che ha la regia delle misure poliziesche e militari da adottare. Il 15 luglio, il maresciallo sovietico Andrej Gretzko, comandante supremo del Patto di Varsavia, assume il comando anche delle forze armate della Ddr, la Nationale Volksarmee.

E l’Ovest? Si limita a mosse di carattere politico. Più per tranquillizzare l’opinione pubblica occidentale che per intimidire i sovietici. Il 25 luglio, il presidente John Kennedy annuncia alla tv i “three essentials”, ossia i punti irrinunciabili della Casa Bianca nell’ambito della questione berlinese. Una sorta di ultimatum in cui ribadisce il diritto degli Alleati di mantenere la presenza militare; il diritto di accesso dei cittadini tedeschi occidentali a Berlino Ovest, di fatto un’enclave all’interno del territorio Ddr; infine il diritto degli abitanti di Berlino Ovest, più di due milioni, all’autodeterminazione e alla libertà. È un discorso suggestivo, carico di nobili sentimenti libertari, ma il Cremlino non si lascia impressionare più di tanto. Al contrario, capisce che l’Occidente non ha intenzione di forzare la mano. È un duello dialettico. Il Cremlino sa alzare i toni, irride, minaccia di scatenare una guerra capace di “distruggere la civiltà”.

Oggi il nostro agosto è attaccato dalla furia climatica di Lucifero. Sessant’anni fa, il Lucifero atomico pareva incombente. Il 3 agosto, a Mosca vengono convocati i segretari comunisti del Patto di Varsavia. Il 6 viene approvato il progetto Rose, vincolato al segreto assoluto. Il 9 agosto i particolari sono tutti definiti e documentati da accurati scambi di lettere tra i capi della Ddr. Il 10 agosto arriva a Berlino Est il maresciallo Ivan Stepanovic Konev. È lui che assume il comando delle forze sovietiche di stanza nella Ddr. Ma è anche un grosso esperto di disinformazione.

Sabato 12 agosto vengono stampati i manifesti con le istruzioni destinate alla popolazione, i divieti e gli avvisi relativi alle chiusure della frontiera. Nessuno potrà più recarsi a Berlino Ovest. La sera stessa, Ulbricht convoca nella sua residenza di campagna a Doelinsee i membri del Politburo e del governo per informarli che nella notte sarebbe stato costruito il primo embrione del Muro che dividerà Berlino. A mezzanotte, Heinz Hoffmann, comandante in capo della Nationale Volksarmee, schiera le truppe dell’Ottava divisione motorizzata (7200 uomini) e alcuni reparti della Prima divisione motorizzata nel centro di Berlino e lungo l’anello esterno di Berlino Ovest, una “cintura di sicurezza” che mette la città sotto assedio. All’una e trenta di domenica 13 agosto, la radio interrompe le trasmissioni per annunciare che è in corso la costruzione dell’Antiimperialisticher Schuttzwall, una barriera di protezione antimperialista (verrà poi detta anche antifaschistischer, antifascista).

Fu così che sessant’anni fa, all’alba di domenica 13 agosto del 1961, la città di Berlino si risvegliò tagliata in due dalle barriere di filo spinato che ben presto sarebbero state sostituite da un lungo muro di cemento, il quale, poco per volta, evolverà in nuove generazioni di costruzioni più sofisticate. Nel giugno del 1962 si provvederà a costruire un secondo muro parallelo, tre anni dopo irrompe il modello di barriera con lastre di cemento armato, rinforzato da cavi di ferro, collegate da montanti di acciaio e coperte da un tubo di cemento. Nel 1975, nuovo look: cemento armato ancor più rinforzato, suddiviso in 45mila sezioni separate, ognuna alta 3,6 metri e larga 1,5. In mezzo ai due muri, uno spazio ampio, anche di decine di metri. Verrà battezzata sinistramente la “striscia della morte”. Per 105,5 chilometri si dipana un fossato anticarro, sorvegliato da 302 torri con cecchini, 20 bunker e una strada illuminata per il pattugliamento lunga 177 chilometri.

L’ordine, fin dal primo giorno, è sparare contro chiunque tenti di scappare. Ci proveranno in cinquemila. Moriranno più di 200 persone (c’è chi dice 192, chi 239). La prima vittima è Peter Fechter. Ha diciotto anni. La sua ragazza vive a Berlino Ovest. Lui vuole raggiungerla. Tenta la fuga il 17 agosto. Le raffiche dei Kalashnikov imbracciati dai “vopos”, i poliziotti della Germania Orientale, lo raggiungono mentre tenta di scavalcare la barriera. Peter muore dissanguato, ai piedi del Muro. Nessuno arriva a soccorrerlo. Non dalla parte americana. Non da quella sovietica. L’agonia è seguita da centinaia di persone impotenti.

La polacca Ida Siekmann ha i parenti nel settore francese. Vuole raggiungerli. Abita al terzo piano di un edificio in Bernauer strasse, il cui muro perimetrale esterno si affaccia su un marciapiede che è di Berlino Ovest. Il 22 agosto prova anche lei a scappare. Getta, per attutire la caduta, alcuni piumoni sul marciapiede: non la proteggono, le lesioni la uccidono. Avrebbe compiuto 59 anni il giorno dopo. Parecchi bambini ci lasciano la pelle: Joerg Hartmann ha dieci anni. L’amico Lothar Schleusener, 13. Abbattuti dai soldati di confine mentre fuggono verso Ovest. Cengaver Katranci muore a nove anni. Giuseppe Savoca a sei. Siegfried Robot ha appena cinque anni, come Cetin Mert, che perde la vita nel giorno del suo quinto compleanno. Il macabro e insopportabile elenco comprende pure Holger H, quindici mesi. È una drammatica, intollerabile galleria degli orrori. Anche quando la fuga va a buon fine. Conrad Schumann riesce ad arrivare in Baviera. Trova lavoro come operaio metalmeccanico all’Audi di Ingolstadt. Caduto il Muro, torna a casa. Lo accolgono come un traditore. Un rinnegato. I demoni della depressione lo travolgono. Si impiccherà nel 1998.

Il Muro di Berlino è stata una ferita straziante per l’Europa, per noi tutti. Non mostrava, dimostrava: la Stasi aveva modellato un regime poliziesco ancor più efficace del Kgb, da cui aveva mutuato i metodi, 13mila funzionari e 170mila collaboratori per tenere in pugno, col regime del sospetto, le vite degli altri, e tutelare, coi soprusi, il potere di pochi. Il Muro non marcò l’inizio della Guerra Fredda, semmai la suggellò. Già il 5 marzo del 1946 Winston Churchill aveva spiegato che l’Europa era divisa: “Da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico, una cortina di ferro si è abbattuta sul continente”. E nel 1948 ci fu il tremendo blocco di Berlino, un braccio di ferro risolto dal formidabile ponte aereo degli angloamericani. Si era già capito che Berlino era la città simbolo ostaggio della guerra tra Usa e Urss, lì si compattava la linea di separazione politica e militare, lì si delineava la perfetta cornice di un conflitto tra due sistemi, quello sovietico e quello capitalista.

Il Muro andava oltre questo schema. Sanciva la Separazione. La postulava invalicabile. Il luogo in cui la Guerra Fredda era fisica. Ricordo una visita al seguito del presidente Sandro Pertini, in cui gli ospiti tedeschi ci portano su una torretta d’osservazione che fronteggiava, vicino al Parlamento, il Muro, a sua volta difeso da una torretta. I soldati dell’una e dell’altra si scrutavano coi binocoli, a distanza di pochi metri. Il grigiore del Muro (scritti e graffiti dalla parte occidentale, a mo’ di sfida) rendeva ancor più angosciante questo rituale imposto dal governo di Bonn alle autorità in visita ufficiale. Ad un certo punto, Pertini, voltandosi verso di noi, disse: “Vedete, mi hanno appena spiato!” Poi, borbottando come suo solito quando le cose non gli garbavano affatto, aggiunse: “Non c’è libertà quando ci sono i muri”. Il Muro, per lui, per noi, era la rappresentazione dell’ingiustizia. Della dittatura.

Era il 20 settembre del 1979, una bella giornata insolitamente tiepida. Chiesi al nostro presidente se intendeva commentare quel che aveva visto. Aveva provato rabbia. E sgomento. E non si voleva rassegnare al rispetto del protocollo. Così disse: “Ho visto quello che hai visto, quello che avete visto tutti voi. Potete immaginare quale sia il mio stato d’animo. Perciò, non chiedetemi altro“. La voce esprimeva indignazione. Avesse aggiunto altro, avrebbe provocato un incidente diplomatico. Il giorno prima, durante il ricevimento con Karl Carstens, il presidente della Repubblica federale tedesca (parlava un ottimo italiano), al brindisi Pertini aveva detto chiaro e tondo cosa pensasse del Muro: “I progressi delle tecnologie e delle comunicazioni rimpiccioliscono gli spazi che in altri tempi sembravano vasti. Le frontiere perdono il significato che avevano. È l’ora delle grandi comunità internazionali. L’Europa unita deve essere una di queste…”, diceva Europa per sottintendere Germania unita. Fu un discorso ben articolato: “L’Europa unita può svolgere opera di mediazione in difesa della pace”. E ancora: “Se è vero che l’Europa è stata la culla della ragione, prevalga la ragione e si arrivi nella sicurezza al disarmo totale e controllato. La fame e la miseria potranno validamente essere combattute. Si svuotino gli arsenali di guerra, sorgenti di morte; si colmino i granai, sorgenti di vita”. L’utopia può diventare realtà, era il suo credo. Dieci anni dopo, quel Muro sarebbe crollato.

Con il suo abbattimento, si sperava non ne sorgessero altri. Invece… il ritorno della paura fa rinascere le barriere, sia invisibili, sia fisiche. Durante le emergenze, si ergono frontiere, limiti fisici. Inciampiamo nel passato? Un passato senza futuro. Come quello di ogni muro: “Avete portato via ogni oceano e ogni spazio – scrisse il poeta Osip Mandel’stam vittima delle Grandi Purghe staliniane – Mi avete dato il mio numero di scarpe in terra con le sbarre attorno. Dove vi ha portato? Da nessuna parte. Mi avete lasciato le labbra, e disegnano parole, persino nel silenzio”.

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