“L’opinione per cui la riforma del processo penale potrebbe frustrare la vostra bruciante domanda di verità e giustizia è del tutto destituita di fondamento“. A Genova per la commemorazione dei tre anni dal disastro del ponte Morandi, la ministra Marta Cartabia ostenta certezze. Con tono secco, quasi infastidito, liquida il timore dei parenti delle 43 vittime che l’improcedibilità prevista dalla riforma finisca per estinguere anche il “loro” processo prima che sia fatta giustizia. Preoccupazione ribadita sabato dalla portavoce Egle Possetti (“Non vogliamo processi eterni, ma giustizia vera”) e che la Guardasigilli, nel proprio discorso, stronca senza facoltà di replica: “Non c’è mai, mai stato alcun rischio per il processo sul crollo del ponte Morandi”. Incoraggiata dall’applauso, bacchetta chi ha osato sollevare il problema: “Bisognerebbe riflettere più di una volta prima di diffondere opinioni che gettano allarme e gravano di un ulteriore peso chi già porta un così grande dolore. Non potrei guardarvi negli occhi se non potessi confutare quelle voci che sono state per voi così grande motivo di preoccupazione”. Quelle “voci” di allarme, però – rilanciate e condivise da moltissimi addetti ai lavori – non nascono dal nulla, ma trovano sponda nel codice penale e nelle sentenze della Corte costituzionale, l’ultima delle quali emessa nel 2019, quando a farne parte era la stessa ministra della Giustizia.
Il mantra di Cartabia è sempre lo stesso: “Basterebbe leggere il testo, non serve un giurista. La riforma si applica ai reati successivi al 1° gennaio 2020“. Ed è già singolare: la ministra sembra ammettere in modo implicito che i processi per i disastri futuri sarebbero a rischio. Ma le cose non sono così semplici. Nel nostro ordinamento esiste il principio del favor rei: l’imputato ha sempre diritto di essere giudicato con la legge più favorevole nel tempo (anche se quando ha commesso il reato ne vigeva una più severa), compresa la disciplina della prescrizione. Come fa quindi la ministra a escludere dalle nuove regole i reati commessi prima del 2020? Il “trucco” è considerare la nuova improcedibilità un istituto processuale, non sostanziale, perciò escluso dal principio. Ma è un’opzione debole. Perché gli effetti dell’improcedibilità sono identici a quelli della prescrizione del reato: se il processo si estingue, il reato non è più perseguibile e il presunto reo resta impunito. Alla prima occasione, quindi, c’è da stare sicuri che fioccheranno i ricorsi per l’applicazione retroattiva delle nuove norme ai processi in corso, compreso quello sul Morandi. L’hanno annunciato, al Fatto, gli stessi avvocati degli imputati: “La riforma in questione introduce una modifica procedurale, che ha però effetti sostanziali – diceva uno di loro -, per questo crediamo di avere armi per far valere le nostre ragioni”.
E sarebbero ricorsi con ottime probabilità di riuscita. Al fattoquotidiano.it l’ha confermato anche Pasquale Bronzo, docente di procedura penale alla Sapienza di Roma e stretto collaboratore di Giorgio Lattanzi, l’ex presidente della Consulta e capo della commissione ministeriale nominata da Cartabia per stilare la bozza di riforma. “Dal punto di vista costituzionale, quella norma è piuttosto pericolante“, diceva. “L’efficacia retroattiva si può sicuramente ipotizzare: se si applicano gli ultimi criteri dettati dalla Corte europea, l’improcedibilità si può definire una norma a effetti sostanziali. Qualsiasi avvocato diligente solleverà la questione, anche soltanto ponendo una questione di eguaglianza: possiamo dare per scontato che il tema arriverà di fronte alla Corte costituzionale“. E a quel punto? Già più volte la Consulta ha bocciato limitazioni nel tempo del principio del favor rei. La sentenza 63 del 2019 (presidente Lattanzi, estensore Viganò, componente Cartabia) citava un precedente del 2006, in cui una norma molto simile a quella con cui la ministra esclude dalla riforma i reati pre-2020 era stata dichiarata illegittima, in quanto “limita in modo non ragionevole il principio della retroattività della legge penale più mite e viola l’art. 3 della Costituzione”. Se la questione tornasse sub iudice a proposito del Morandi, non c’è motivo di pensare che la decisione debba essere diversa.
Con l’ultima versione della legge, però, i parenti delle vittime potrebbero quantomeno contare su un arco di tempo più lungo prima che scatti la ghigliottina. I due anni del termine base per concludere il giudizio d’Appello, infatti, sarebbero prolungabili dal giudice fino a tre, essendo il processo sul crollo un caso di “particolare complessità“. Questo, però, soltanto grazie alla battaglia politica che ha costretto Cartabia a modificare in extremis un testo già approvato in Consiglio dei ministri. Per la Guardasigilli, infatti – almeno a leggere la sua intervista del 10 luglio al Corriere – due anni sarebbero stati più che sufficienti, visto che “a Genova, mediamente, ci si impiega di meno”. E non è nemmeno la prima volta che la ministra, a proposito della propria riforma, si lancia in affermazioni apodittiche facilmente smentibili dai fatti. Durante un question time alla Camera arrivò a dire che i processi di mafia non avrebbero rischiato di andare in fumo perché esclusi dall’improcedibilità, che non si applica ai reati puniti con l’ergastolo, senza considerare che solo in una minoranza di casi, ormai, i processi per mafia riguardano stragi od omicidi. E salvo poi, subito dopo l’accordo sul nuovo testo, festeggiare il “regime speciale per i reati che nel nostro Paese hanno destato allarme particolare, come i reati di mafia”. La speranza dei parenti delle vittime del ponte è che chi oggi le rassicura non sia costretta a contraddirsi un’ennesima volta.