Diritti

Eutanasia, la testimonianza del giudice: ‘Dj Fabo e mio padre non erano eroi, ma malati costretti a una scelta. Legislatore vigliacco rende necessario il referendum’

Secondo il magistrato del tribunale dell'Aquila Marco Billi, anche se passasse la consultazione popolare un intervento del Parlamento sarebbe "indifferibile". Ma il legislatore "ha lasciato soli i malati e le loro famiglie. Una barbarie"

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“Il referendum sull’eutanasia legale è l’unica strada per sbloccare una situazione in stallo da tempo e indurre a un intervento il legislatore inerte da decenni che, con un atteggiamento vigliacco, ha lasciato soli i malati e le loro famiglie. Una barbarie”. Ma per Marco Billi, giudice del tribunale dell’Aquila e autore del libro ‘Soli nel fine-vita. Il caso Cappato e la necessità di una legge’ (Edizioni Mondo Nuovo di Pescara) l’intervento legislativo resterebbe “indifferibile” anche se passasse il referendum con l’abrogazione parziale dell’articolo 579 del codice penale (omicidio del consenziente, ndr) che impedisce l’eutanasia legale in Italia. In quel caso non sarà più perseguibile chi cagiona la morte di un’altra persona con il consenso di quest’ultima. A meno che non sia minorenne, inferma di mente o in condizioni di deficienza psichica per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti, o qualcuno il cui consenso sia stato estorto.

“Significa passare dal principio di indisponibilità della vita a quello di disponibilità, su cui sono d’accordo – spiega il giudice, intervistato da ilfattoquotidiano.it – pur ritenendo che spetti al legislatore aiutare chi, tuttora, è privo di tutela. E perché non avvenga in modo indiscriminato, occorre seguire le indicazioni della Corte Costituzionale”. Il 6 luglio scorso, in effetti, è stato adottato un testo base che approderà in Aula ma, secondo Billi “non va nella giusta direzione”. Il libro è frutto di un approfondimento sul caso giudiziario scaturito dopo la morte di Fabiano Antoniani, diventato ceco e tetraplegico dopo un incidente e a cui Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, ha fornito aiuto al suicidio, accompagnandolo in Svizzera e rischiando 12 anni di carcere.

“ANCORA OGGI MIO PADRE NON SAREBBE TUTELATO” – Ma è frutto anche di un’esperienza personale, che l’autore racconta. “Nel giro di quattro mesi mio padre Pietro è morto per una forma di tumore molto violenta. Quattro mesi – spiega – cadenzati da tre interventi chirurgici al cervello”. Aveva detto più volte che, se dopo il primo intervento avesse perso la lucidità, “noi familiari avremmo dovuto accompagnarlo in Svizzera”. Quel primo intervento non è stato risolutivo. E neppure i successivi. All’epoca la legge 219/17 sulle Disposizioni anticipate di trattamento non era ancora in vigore. “Quando ho visto che si era verificata la situazione temuta – racconta Billi nel libro – ho fatto appena in tempo a capire che non sapevo cosa fare. E l’ho perso”. Oggi cosa accadrebbe? “Non sarebbe tutelato, nonostante la legge 219″.

Nel libro Billi sottolinea come Fabiano e il padre non siano stati degli eroi, ma “si sono trovati entrambi in una situazione senza vie di fuga né ritorno. Sono stati costretti a prendere una decisione che, solo qualche tempo prima, non immaginavano neanche”. E in questo senso che scrive l’autore nell’introduzione “credo che il legislatore debba sentirsi, in qualche maniera come loro: costretto a decidere“.

LA DISPARITÀ DI TRATTAMENTO – La legge 219 quindi non risolve. “Un testo timido che siamo stati tra gli ultimi ad adottare fra i Paesi europei sotto la spinta dei casi Welby ed Englaro – spiega – e che detta criteri non innovativi, recepiti dalla giurisprudenza in vent’anni”. Eppure è stata il traguardo alla fine di una lunga battaglia. “Non disciplina la fase del fine e porta in sé una contraddizione” ribatte Billi. Lo ha evidenziato la Consulta davanti alla quale, nel caso Cappato, la Corte d’assise di Milano ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale (istigazione e aiuto al suicidio, ndr)” che incriminava l’aiuto al suicidio a prescindere dal contributo nel determinare il proposito della persona malata. La legge 219 prevede che un paziente nelle condizioni di dj Fabo possa chiedere di sospendere trattamenti sanitari salva vita e una sedazione profonda per il tempo che lo separa da una morte per stenti “ma non che possa chiedere al medico di somministrargli un farmaco letale” spiega Billi.

La Corte ha ravvisato una “irragionevole disparità di trattamento in situazioni identiche”, riconoscendo che il paziente potrebbe ritenere la prima modalità lesiva della sua dignità. “È il caso di Fabiano – aggiunge – che non voleva che la madre o la fidanzata lo vedessero soffrire, mentre moriva di stenti”. Restano fuori i casi di pazienti che non si trovano nell’imminenza della morte o in una condizione di particolare sofferenza fisica. “Penso a mio padre, ma anche ai malati di Alzheimer. Perché sottoporre per anni un paziente a operazioni con il solo scopo di tenerlo in vita, a qualunque costo?” commenta il giudice, secondo cui è necessaria “una riflessione sul concetto di irreversibilità della malattia e per stabilire qual è il livello di prossimità rispetto alla morte, che legittimerebbe la richiesta di aiuto al suicidio”.

IL REFERENDUM E LA POSIZIONE DELLA CONSULTA – Nel libro il giudice ricostruisce il processo Cappato e analizza le decisioni della Consulta, quantomai importanti. Perché se è vero che in quel caso si è espressa rispetto al reato di istigazione o aiuto al suicidio (mentre oggetto del referendum è la norma sul reato di omicidio del consenziente), prima di arrivare al referendum, il quesito dovrà superare un controllo presso la Cassazione e poi un altro, di ammissibilità, proprio presso la Corte costituzionale. Una vittoria del ‘sì’ significherebbe passare dall’assoluta indisponibilità della vita alla totale disponibilità, come prospettato dalla Corte d’assise di Milano e dalla Corte costituzionale tedesca, secondo cui il diritto all’autodeterminazione prevale in assoluto “ma non dalla Consulta, che nell’ordinanza 207 del 2018 assume una posizione molto prudente, ponendo anche troppi paletti. Sono d’accordo sul ribaltamento del principio, ma credo ci debba essere un controllo, come previsto dalla Consulta”.

LE PRONUNCE SUL CASO CAPPATO – Ritenendo che “esista il diritto alla vita tutelato proprio dall’articolo 580, ma non un dovere di vivere in ogni caso (il limite è disegnato dalla 219/17, ndr)”, nel 2018 la Consulta ha emesso una pronuncia di ‘incostituzionalità differita’. “Non ha dichiarato l’inammissibilità della questione sollevata dai giudici di Milano – spiega Billi – per non mantenere in vita un testo con dei profili di incostituzionalità, ma neppure ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580, per non creare un vuoto di tutela per le persone più vulnerabili”. E ha rinviato a un’udienza fissata a distanza di quasi un anno per le questioni di legittimità costituzionale, sollecitando il legislatore a intervenire. Ma il Parlamento ha lasciato scadere il termine e la Consulta, a settembre 2019 “ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’articolo 580”, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dalla legge 219, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio “autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili, ma capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Ecco i paletti. Di fatto, però, è la sentenza storica che ha portato la Corte d’assise di Milano, a dicembre 2019, ad assolvere Marco Cappato dal reato di aiuto al suicidio.

CHI RESTA SENZA TUTELA – Molte persone, però, restano prive di tutela “mentre in Italia si continua a praticare l’eutanasia clandestina” e non tutti possono andare in Svizzera. “Fabiano Antoniani, poi, ha potuto mordere da solo la fialetta che lo ha portato a morire – commenta Billi – ma non ritengo ragionevole negare a chi si trova nella stessa situazione, ma non è in grado di mordere la fialetta, la possibilità di chiedere che qualcuno lo faccia al suo posto”. La Consulta, poi, fa riferimento a “trattamenti di sostegno vitale”. In un’interpretazione restrittiva “chi è attaccato al macchinario”, anche se la Corte d’assise d’Appello di Genova, nel caso di Davide Trentini (assolti Marco Cappato e Mina Welby), apre questa possibilità ai malati dipendenti da qualsiasi trattamento sanitario vitale (anche somministrazione di farmaci). Poi ci sono alcuni aspetti su cui la Consulta “dà indicazioni chiare”. Non solo richiama la legge 219, ma dice che “condizioni del paziente e modalità di esecuzione devono essere verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente” e, rispetto all’obiezione di coscienza, prevede che “il singolo medico possa scegliere se prestarsi o meno a esaudire la richiesta di aiuto al suicidio” andando oltre la legge 219 che, invece, non riconosce (se non in specifici casi) al medico possibilità di rifiuto. “Neppure il testo base va in questa direzione”, spiega Billi, tra i giudici che avevano presentato alcune osservazioni alle Commissioni Giustizia e Affari costituzionali. “Dopo mesi – racconta – pur di superare le divergenze e far uscire un testo, ne è stato adottato uno identico a quello precedente con difformità macroscopiche rispetto alle indicazioni della Corte costituzionale”.

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