Nei giorni scorsi Amnesty International ha pubblicato un bilancio sulle violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita negli ultimi sette mesi, ossia da quando è terminata la presidenza del G20. Sintesi: come prima, se non peggio di prima.
Il primo dato allarmante è che rispetto al numero bassissimo, se comparato agli anni precedenti, di condanne a morte eseguite in tutto il 2020, nei primi sette mesi del 2021 c’è stato un grande aumento: da 28 a 41. È tornato a lavorare a pieno regime anche il Tribunale penale speciale, l’organo giudiziario cui competono i processi per terrorismo, invariabilmente segnati da enormi irregolarità procedurali, come l’uso di “confessioni” estorte sotto tortura durante infiniti periodi di isolamento carcerario. In almeno tre casi, prigionieri che avevano terminato o stavano terminando di scontare lunghe condanne per mere attività politiche sono stati nuovamente arrestati e processati o si sono visti aumentare la pena poco prima della scarcerazione.
Ecco alcuni dei nuovi casi che hanno fatto arrivare a 39 il numero delle persone in carcere per il loro lavoro in favore dei diritti umani o per aver espresso dissenso rispetto alle politiche governative. A febbraio Isra al-Ghomgham, di cui avevo scritto su questo blog tre anni fa, è stata condannata a otto anni di carcere seguiti da otto anni di divieto di espatrio per il suo impegno in favore dei diritti della minoranza sciita della Provincia orientale.
Ad aprile l’operatore umanitario Abdulrahman al-Sadhan è stato condannato a 20 anni di carcere, seguiti da 20 anni di divieto di espatrio, per aver pubblicato su Twitter commenti satirici sulle politiche del governo. Sempre ad aprile Mohammad al-Rabiah, arrestato nel maggio 2018 per aver sostenuto la campagna per il diritto alla guida delle donne, è stato condannato a sei anni di carcere, seguiti da sei anni di divieto d’espatrio, per “aver cercato di incrinare la coesione sociale e indebolire l’unità nazionale” e “aver scritto e pubblicato un libro contenente opinioni sospette”.
Infine, le tre attiviste per i diritti umani rilasciate quest’anno dopo quasi tre anni di carcere – Loujain al-Hathloul, Samar Badawi e Nassima al-Sada – oltre a non poter effettuare viaggi all’estero per i prossimi cinque anni, vivono col terrore di essere nuovamente arrestate poiché le loro condanne non sono state annullate ma solo sospese.