Gli amici de IlFattoQuotidiano.it mi chiedono di scrivere qualcosa in occasione degli 85 anni di Mogol, che cadono proprio oggi, 17 agosto 2021. “Anche poche righe ci farebbero piacere” scrivono nella mail. “Lo faccio io, con piacere” rispondo e, lo giuro, ci proverò, ma poche righe per far capire cosa ha rappresentato Mogol per la canzone italiana davvero non bastano. Farò del mio meglio, ma partirò con una premessa.

Mogol è un autore, non un paroliere. Bisognerebbe farla finita con il termine “paroliere” quando si ha a che fare con artisti come lui. Mogol è stato uno dei primi a scrivere i testi delle canzoni quando c’era nell’aria l’idea forte e affascinante di creare una vera rivoluzione artistica e culturale tramite le canzoni. Quando l’arte si sposa così tanto con la vita e la società, bisogna stare attenti con le parole per descriverne le peculiarità. Mogol è un autore, uno dei più importanti autori che abbiamo.

E il termine autore sia da intendere nel senso più pieno possibile, strettamente legato a quello di “poesia”, cioè di “invenzione”: l’autore è colui che prende la forma consueta del mondo e la fa passare nel vetrino della propria poetica, e che da quest’altra parte ci mostra delle angolazioni strabilianti e assolutamente evocative della realtà stessa. E il saper fare di quell’autore è suo e suo soltanto. Ecco perché per una comunità che riconosca degli elementi culturali comuni con esso, è doveroso celebrarne gli intenti, la maestria, e provare a decrittare la sua opera.

“Paroliere”, invece, la trovo persino una parola dispregiativa: troppo simile a “parolaio”, è un modo di esprimersi con sufficienza, inadatto a chi ha scritto “Emozioni” o “L’arcobaleno”. Detto questo, di Giulio Rapetti Mogol si evidenzia soprattutto la sua collaborazione con Lucio Battisti, cessata nel 1980 con la pubblicazione dell’album Una giornata uggiosa, ma è davvero un peccato non considerare la sua opera per intero come corpus unico, che sviluppi una poetica propria, esclusiva e preziosa. Con gli autori, invece, questo bisogna farlo.

Dagli anni Sessanta ai giorni nostri l’Italia ha attraversato degli stravolgimenti sociali degni di una “mutazione antropologica”, come la chiamava Pier Paolo Pasolini. Il passaggio è perfettamente testimoniato nei testi di Mogol, quando racconta gli anni Settanta, del transito da una società preindustriale che muta i valori e le prerogative, del ruolo della donna che rivendica libertà, delle coraggiose scelte d’amore che ti mettono contro il tuo intero mondo di affetti, immerso in un modo di fare borghese ipocrita e incattivito.

Oppure quando negli anni Ottanta facilita il felicissimo sodalizio con Mango, scorgendone il talento cristallino e costruendone il mondo letterario perfetto per la leggerezza eterea della sua voce e del suo mondo musicale, planando con brani come “Oro” o “Mediterraneo” su un decennio di piattume culturale. Così arrivando al periodo a cavallo tra vecchio e nuovo millennio, quando assieme a Gianni Bella scrive per Celentano quelli che forse sono gli ultimi grandi successi di pop d’autore “alla vecchia maniera”, quando ancora la discografia è presente e – almeno in Italia – regge, con “L’emozione non ha voce” e tutta la loro collaborazione.

Se si vuole capire meglio il secondo Novecento italiano, l’opera di Mogol va studiata attentamente. Nei circuiti elitari della canzone si dovrebbe riflettere su questo punto. La canzone è un atto poetico-musicale che nel suo farsi – nella timbrica, nelle strumentazioni, nell’intenzione artistica verbale e musicale – riproduce immediatamente la società. È una magia a volte inspiegabile. Quanti cantautori polverosi, impegnati, ombrosi e del tutto scollati dalla realtà sono stati celebrati in Italia? Per decenni nessuno si è sognato di mettere in discussione certe improbabili prosopopee. Per capirci: perché il Club Tenco in tutti questi decenni ha letteralmente snobbato Mogol? Non è dato saperlo. Un passo avanti decisivo è stato però fatto due anni fa a L’Aquila, e sono felice, da direttore artistico di quella manifestazione, di averne creato le premesse assieme al prezioso aiuto di Angelo Valori.

L’incontro tra Mogol e il Club Tenco, gotha della canzone d’autore italiana, fu ricco di spunti. Fu addirittura epocale ma, oserei dire, naturale: un “uovo di Colombo” nella storia della canzone italiana. Credo sia ancora troppo poco, ma la strada è quella giusta. Intanto auguri sinceri per i suoi 85 anni a Mogol, uno dei nostri più grandi autori. Non credo di aver brillato per brevità, ma ne valeva la pena.

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