Rispetto al 1996 i Talebani hanno coltivato attorno a loro un terreno diverso, alimentando delle premesse che possono indurre a credere in un loro accresciuto pragmatismo. E a cambiare sono anche i rapporti con Teheran. Il neo prasidente Ebrahim Raeisi - che ha salutato il ritiro statunitense come una occasione per “lavorare nuovamente ad una pace duratura” - ha incaricato direttamente il ministro degli Esteri di seguire la situazione e riportare direttamente a lui. Le relazioni, però, restano ammantate di diffidenza nel quadro di un rapporto storicamente complicato e in continua evoluzione per motivi strategici
Per le sue modalità placidamente spettacolari e per il suo timing l’arrivo dei Talebani a Kabul ha sorpreso molti analisti e, a giudicare le parole di Joe Biden solo un mese fa, soprattutto l’amministrazione americana. Rispetto al 1996, però, i Talebani hanno coltivato attorno a loro un terreno diverso, alimentando delle premesse che possono indurre a credere in un loro accresciuto pragmatismo: un cambiamento di strategia tutta da dimostrare nella pratica. Di sicuro se 25 anni fa il movimento hanafita-deobandi arrivò nella capitale afghana con lo stigma del pariah, giustiziando il presidente Najibullah e vedendosi riconoscere da soli tre paesi al mondo – Emirati arabi uniti, Arabia saudita e Pakistan -, oggi la leadership politica che fa capo ad Abdul Ghani Baradar viene da quasi un anno di esplorazioni ed incontri diplomatici di diverso tipo. Il mese scorso Baradar ha incontrato a Tianjin il ministro degli esteri cinese Wang Yi, a marzo ed a luglio è volato a Mosca, e sempre a luglio il capo del Bureau dei Talebani in Qatar, Abbas Stanekzai, ha partecipato ad un incontro con l’ex vicepresidente afghano Yunus Qanooni a Teheran, all’interno del ministero degli Esteri. L’anno scorso, come noto, c’erano stati gli “incontri di pace” con l’ex segretario di Stato americano, Mike Pompeo.
Proprio in Iran, con cui l’Afghanistan condivide oltre 900 km di confine, la vittoria dei Talebani è stata accolta in modo eterogeneo all’interno dell’arena politica, generando anche parziali cambiamenti di prospettiva sul piano interno. Il più rilevante lo ha segnalato l’emittente Amwaj, che riferisce come il neo presidente principalista Ebrahim Raeisi – che ha salutato il ritiro statunitense e l’arrivo dei Talebani come una occasione per “lavorare nuovamente ad una pace duratura” – con una mossa inusuale abbia incaricato direttamente il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif di seguire la situazione a Kabul e riportare direttamente a lui, in attesa che il suo successore Hossein Amir Abdollahian assuma l’incarico. Poche ore dopo l’arrivo dei Talebani a Kabul, Raeisi avrebbe incontrato Zarif e gli avrebbe chiesto di produrre dei report sulla situazione, visto che Zarif non solo è colui che ha organizzato gli incontri di luglio tra i Talebani e un comitato politico afghano d’alto profilo ma è anche “referenziato” sull’Afghanistan, dossier di cui si occupa da vent’anni in diverse vesti.
Quella tra Talebani e Iran è una relazione complessa, cambiata negli ultimi anni per motivi strategici ma ammantata di diffidenza. Il problema di Teheran con i Talebani è legato in origine a due dimensioni: quella di movimento ideologicamente anti-sciita ed il fatto che i Talebani dessero rifugio ad Al Qaeda, uno dei movimenti transnazionali più marcatamente takfiri. Il punto più basso nelle relazioni fu raggiunto nel 1998, quando 8 diplomatici iraniani ed un giornalista furono assassinati dai Talebani a Mazar-e Sharif, spingendo l’Iran ad ammassare truppe al confine, a nominare Qassem Suleimani a capo delle forze Al Quds dei Guardiani della rivoluzione e, tre anni dopo, sotto la presidenza di Mohammad Khatami, addirittura a fornire il proprio spazio aereo agli americani per i raid sulle postazioni talebane, oltre a giocare un ruolo importante nella liberazione di Kabul, prima dell’arrivo degli statunitensi. Il presidente uscente Hassan Rouhani nel 1998 era segretario del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale, e fu lui, l’indomani del massacro dei diplomatici, a tornare anzitempo da un pellegrinaggio a La Mecca per dissuadere la Guida Suprema Ali Khamenei da propositi di operazioni militari “punitive” in Afghanistan.
Dall’invasione americana, le relazioni sono sempre state altalenanti e guidate da pragmatismo, non senza diversi ordini di apprensione, di volta in volta affievolitesi nella misura in cui i Talebani hanno recuperato a pieno la loro dimensione di forza locale, anziché rifugio per internazionali jihadiste anti-sciite. L’Iran ha giocato un ruolo chiave nella conferenza di Bonn del 2001, che portò all’amministrazione ad interim guidata da Hamid Karzai. Deve aver persuaso ulteriormente anche il fatto che i Talebani abbiano scacciato l’Isis dall’Afghanistan, evidenziando la natura nazionalista della loro progettualità, e che abbiano fornito rassicurazioni in tal senso. Per l’Iran, come per la Russia, l’India e la Cina, il problema dei Talebani rimane legato alle loro eventuali pretese internazionali e alla loro capacità di risvegliare o dare rifugio a movimenti jihadisti dell’area, tanto in Iran, quanto nelle ex repubbliche sovietiche, così come nello Xinjang.
Rimangono tuttavia molti interrogativi, a loro volta legati a fratture interne all’arena iraniana. Lo scorso aprile proprio Zarif ha ribadito la necessità di una pace inclusiva e di un governo multi etnico (qualcuno ha ipotizzato “soluzioni” alla libanese, con ogni gruppo etnico assegnatario ex ante di una quota di potere), partecipato da tutte le componenti afghane – quindi non attendendosi una ascesa cosi prepotente e unilaterale dei Talebani -, esplicitando preoccupazione circa la possibilità che un “Emirato islamico” in Afghanistan possa minacciare la sicurezza nazionale iraniana e di altri paesi regionali. La richiesta di una linea intransigente verso i Talebani viene dal redivivo campo riformista: lo scorso 11 luglio il parlamentare riformista Mahmoud Sadeghi ha contestato duramente l’incontro intra-afghano organizzato da Zarif a Teheran, ricordando come i Talebani siano ancora classificati come organizzazione terroristica e che abbiano ucciso sia iraniani che membri della comunità hazara afghana, di cui in Iran esiste una folta comunità di rifugiati (che secondo i pessimisti, in Iran, potrebbe aumentare in caso di innalzamento delle tensioni a Kabul, mettendo a dura prova le capacità di assorbimento di Teheran, già alle prese con una crisi economica acuita dalle sanzioni e dalla pandemia). Diversi religiosi si sono aggiunti alle contestazioni, come l’Assemblea di seminaristi e ricercatori di Qom, che il 21 luglio scorso ha pubblicato una dichiarazione nella quale ribadisce con preoccupazione la natura anti-sciita dei Talebani.
Di riflesso, e in modo parzialmente paradossale, molti esponenti conservatori hanno apprezzato la strategia di Zarif e Rouhani sull’Afghanistan e i Talebani. Come ricorda Middle east eye, nel 2020 il parlamentare conservatore Ahmad Naderi ha rimarcato la natura endogena dei Talebani, sostenendo che una attenta cooperazione con l’Iran può portare alla stabilità in Afghanistan. Considerazioni simili, che rimarcano il cambiamento dei Talebani nel corso degli anni, sono uscite sul giornale Kayhan, il cui direttore è nominato direttamente da Khamenei. Chi, nell’ampio campo conservatore, non è del tutto convinto è una proxy iraniana: le brigate Fatemiyoun, una milizia filo iraniana formata da Sulaimani reclutando membri della minoranza hazara, che ha combattuto anche in Siria e Iraq contro l’Isis e altri gruppi, ha sempre mantenuto una profonda diffidenza verso i Talebani, pur dichiarandosi a favore del dialogo intra-afghano. Ma le parole più sorprendenti sono arrivate dal Gran Ayatollah Lotfollah Safi Golpaygani – per alcuni uno dei papabili successori di Khamenei -, che lo scorso luglio in una lettera ufficiale ha invitato Teheran a “non fidarsi dei Talebani, perché sarebbe un gravissimo errore”.