Il decennio che si è chiuso da poco passerà alla storia come il più grave dissesto dell’editoria italiana. Dieci anni in cui i giornali hanno visto un calo continuo e inarrestabile delle copie vendute nelle edicole, rimpiazzate solo in minima parte, quanto a ricavi, dalle edizioni digitali. È un cambio di paradigma drammatico che non potrà che accelerare in futuro, con la fruizione dei giornali che passa dalla copia fisica a quella consultabile sui dispositivi. Ma come tutte le transizioni da un modello di business all’altro, prima che il passaggio si completi lascerà dietro di sé una scia di distruzione creativa. Per ora si raccolgono solo i cocci della rivoluzione digitale per l’industria dei giornali.
Ricavi a picco e perdite per 2 miliardi di euro – I ricavi da vendita, in media, per i più grandi gruppi quotati si sono più che dimezzati dal 2010 al 2020. A inizio decennio valevano 4,4 miliardi, a fine 2020 il fatturato si è fermato a soli 2 miliardi. Con i ricavi crollati era inevitabile continuare a segnare perdite. Nel decennio il sistema dell’informazione ha prodotto oltre 2 miliardi di passivo. Un’ecatombe mitigata, ma solo in minima parte, dalle centinaia di pre-pensionamenti e dal continuo ricorso agli ammortizzatori sociali per giornalisti e poligrafici e da un complessivo taglio dei costi, che poco hanno potuto nel frenare la caduta. Un bagno di sangue in cui, salvo pochissime eccezioni come vedremo, le aziende hanno inanellato perdite su perdite. Un excursus sui principali gruppi, tutti quotati, aiuta a comprendere la portata drammatica della crisi strutturale della stampa.
Il giornale degli imprenditori fa peggio di tutti – Il gruppo che edita il primo giornale economico-finanziario del Paese, posseduto da Confindustria, è il campione indiscusso dell’incapacità imprenditoriale di fermare il declino. Dal 2009 (prima perdita di bilancio) ha chiuso in utile (per soli 7,5 milioni) un solo anno, il 2017. Per il resto è stata una via crucis. Un filo rosso di perdite che dal 2010 al 2020 hanno cumulato un passivo di oltre 300 milioni. Bruciate per quasi due volte tutte le risorse raccolte dalla quotazione del 2007. I ricavi, che valevano nel 2010 472 milioni di euro, a fine del 2020 si collocano sotto i 200 milioni. Una crisi che non ha mai trovato soluzione. Solo dal 2018 Il Sole24Ore ha ritrovato un margine industriale positivo, ma a livello dell’ultima riga di bilancio il rosso non è scomparso. Anche nei primi sei mesi del 2021, pur con il margine operativo lordo a 7,3 milioni su ricavi per 97 milioni, il gruppo ha chiuso ancora in perdita per 3,3 milioni. Nel mezzo della lunga crisi il giornale di Confindustria ha usufruito, come tutti, di tutte le tipologie di ammortizzatori sociali: dalla cassa integrazione, ai contratti di solidarietà ai prepensionamenti. E sempre in quegli anni ha dovuto affrontare lo scandalo delle copie digitali farlocche che hanno visto patteggiare il presidente e l’ad del gruppo e finire a processo l’ex direttore Roberto Napoletano.
Rcs, la svolta nei conti con l’arrivo di Urbano Cairo – E’ una vicenda a due facce quella di Rcs, il gruppo che edita tra le altre cose il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport. Un decennio diviso in due. Prima la gestione fallimentare degli azionisti dell’ex salotto buono che hanno visto cumulare perdite colossali. Dal 2010 al 2015 è andata in scena la più grave crisi del gruppo che edita il primo giornale italiano. Le perdite, continue, sono state di 1,3 miliardi con ricavi crollati da 2,2 miliardi a solo 1 miliardo e con una situazione debitoria finanziaria sempre più grave con debiti a oltre mezzo miliardo.
La svolta è arrivata con la presa di possesso di Rcs da parte di Urbano Cairo nell’agosto del 2016. Da lì in poi ecco ritrovare l’utile. Il primo già a fine del 2016 per 3,5 milioni. Poi una progressione invidiabile – non senza, anche qui, prepensionamenti e cassa integrazione per i lavoratori – con una dote cumulata dal 2016 al 2020 di ben 260 milioni di profitti netti. Anche Rcs ha sofferto del calo dei ricavi, passati dai 940 milioni del 2016 ai 750 milioni del 2020. Ma nel 2021 c’è già stato un forte rimbalzo con un recupero di 100 milioni di ricavi e il gruppo si appresta a chiudere l’anno, secondo le stime, con un fatturato intorno agli 880 milioni. Con il balzo dei ricavi di quest’anno è tornata anche la marginalità lorda che ora è sopra il 15% dei ricavi e anche l’utile netto a 39 milioni solo nei primi 6 mesi del 2021. Al netto dell’affaire Blackstone e della relativa causa milionaria, Rcs è oggi, tra i grandi gruppi editoriali, quello con le performance di gran lunga migliori del settore.
La parabola di Gedi, dal successo al crollo della gestione Agnelli – Rispetto a Rcs, Gedi, cioè l’ex gruppo L’Espresso Repubblica, oggi controllato all’89% dalla Exor della famiglia Agnelli e che ha assorbito sia La Stampa sia Il Secolo XIX, ha compiuto il percorso inverso. Nei primi anni del decennio era il gruppo editoriale più in salute. Tra il 2010 e il 2016 era riuscito a collezionare 160 milioni di utili, mentre Rcs perdeva oltre 1,3 miliardi. Poi l’inizio della crisi che ha ribaltato il quadro. Dal 2017 al 2020, complice la grave crisi di diffusione de La Repubblica, ma anche de La Stampa e Il Secolo, la società che era dei De Benedetti ha cumulato 450 milioni di perdite. Solo nel 2020, l’anno del passaggio da Cir alla famiglia Agnelli, le perdite sono state di ben 166 milioni. A pesare non solo il calo potente dei ricavi che nel decennio hanno perso 385 milioni, ma anche le pulizie sul valore delle testate.
Solo tra il 2019 e il 2020 Repubblica è stata svalutata di oltre 130 milioni, portando il valore del brand da oltre 200 milioni a solo 80 milioni. Sorte analoga anche per la divisione Gnn che edita i giornali locali, oltre a La Stampa e Il Secolo XIX, svalutati solo nel 2020 di 48 milioni. E che anche la gestione industriale vada assai male lo dicono i conti. Alla Divisione Repubblica (il giornale più gli allegati più il settimanale L’Espresso) i costi superano i ricavi e il margine è negativo. Meglio la divisione Gnn (giornali locali più La Stampa e il Secolo) che ha un margine di 14 milioni su 206 milioni di ricavi, ma le svalutazioni hanno portato in rosso anche i conti di Gnn. Tengono solo le radio pur con ricavi crollati da 64 milioni a 45 nell’ultimo anno con un utile operativo sceso a solo 1,2 milioni dai 15 milioni del 2019. Ora l’amministratore delegato Maurizio Scanavino chiede un taglio massiccio dei giornalisti a Repubblica e ha societarizzato i periodici tra cui L’Espresso, segno prodromico a una cessione o a una chiusura futura.
Perdite da 400 milioni per le testate di Caltagirone – Una serie decennale di perdite per 394 milioni per il Caltagirone editore. I suoi giornali (Il Mattino, il Messaggero, il Gazzettino) che fatturavano 242 milioni nel 2010 ora fanno ricavi solo per 119 milioni. Non solo la crisi delle entrate ha prodotto le perdite, ma anche le continue svalutazioni delle testate del gruppo. Meno copie, meno ricavi, valore dei marchi che scende inesorabilmente.
Monrif, il rosso è contenuto ma mancano le svalutazioni – Stesso film per Andrea Riffeser Monti, l’editore del Giorno, di Qn, e del Resto del Carlino, nonché presidente della Fieg, la Confindustria dei padroni dei giornali. I ricavi sono scesi da 252 milioni a solo 143 milioni nei dieci anni. Le perdite sono più basse rispetto a Caltagirone, solo 40 milioni, ma va anche detto che Riffeser ha fatto molte meno svalutazioni delle sue testate.
Class, la finanza non paga – Il gruppo Class, che edita tra gli altri Milano Finanza e Mf, non è stato immune alla crisi dei giornali. Fatturava nel 2010 128 milioni, ora i ricavi sono scesi a 64 milioni. La striscia delle perdite dice che nel decennio sono state di 140 milioni. Non solo, ma la casa editrice ha dovuto rinegoziare più volte il debito con le banche.
Seif sempre in utile, tranne che nel 2019 – Seif, editore de Il Fatto Quotidiano e Ilfattoquotidiano.it nati rispettivamente nel 2009 e 2010 prima della crisi dell’editoria italiana, ha chiuso sempre in utile nel decennio con la sola eccezione del 2019, anno della quotazione sul listino Aim (rosso di 1,49 milioni). Nel 2020 i ricavi sono saliti da 32 a 38 milioni con margine industriale a quota 5,2 milioni e un utile netto di 300mila euro.