di Ilaria Muggianu Scano
La nuova notte dei cristalli, con l’invasione talebana a Kabul, genera il paradosso antropologico di chi ha sancito la propria condanna retroattiva. Chiunque, negli ultimi vent’anni in terra afghana, abbia esercitato la propria creatività politica e sociale ad ogni livello, chi ha ceduto all’utopia di esportazione ed innesto della democrazia occidentale ha firmato la propria lenta condanna a morte nell’inesorabile destino di un popolo di dead men walking. Quale dunque l’appello più urgente alla comunità internazionale, affinché sia concreto, tangibile ma soprattutto tempestivo l’intervento cautelativo e di protezione verso chi, con esiti esiziali, ha esercitato progettualità o abbia creduto in ogni operazione di peacekeeping, verso quanti hanno semplicemente ritenuto intollerabile non compiere un progetto di libertà in questi vent’anni?
Gli interventi sono numerosi e di non facile attuazione nell’immediato, come l’attivazione di corridoi umanitari combinati a soluzioni diplomatiche che obblighino il potere talebano a mantenere aperte le frontiere affinché primo soccorso e accoglienza dei Paesi vicini si concretizzino in sicuro viatico di uno scenario di salvezza e serenità duratura fuori dai confini.
Essenziale, una volta deflagrato il rapido interesse mordi e fuggi dei social users estivi, mantenere costante e accesa l’attenzione internazionale sugli affari afghani. Questo potrà rivelarsi possibile, stavolta sì, grazie a una vigilanza senza soluzione di continuità sull’attendibilità di informazione e comunicazione dall’Afghanistan. Alta l’attenzione su donne e bambine. Il primo atto propagandistico talebano per bocca di Zabiullah Mujahed, capogruppo dei miliziani, appare di pura valenza estetica. Si assicurano piene libertà di espressione, compreso il diritto allo studio. Intanto donne e bambine, ad oggi, sono sui banchi di scuola con l’hijab. Una narrazione edificante che in nulla combacia con le scene strazianti testè riprese all’aeroporto di Kabul e che in pochi istanti hanno fatto il giro del mondo.
“Aiutateci – implorano le donne – i talebani stanno arrivando a casa”. Con loro arriva l’urlo disperato di migliaia di persone che, sotto gli occhi spesso distratti dei social users estivi, preferiscono rischiare la vita nel miraggio di un giorno in più di salvezza. “Le donne dovrebbero far parte del governo secondo i dettami della Sharìa” assicura Mujahed, il che, di per sé, non è assolutamente un dato confortante. Secondo la sunna (consuetudine della Sharìa), basata sul Corano, libro rivelato da Allah a Muhammad – leggi ‘Maometto’, all’italiana, solo se vuoi compromettere con un prosaico linguaggio da vulgata ogni buon rapporto con l’interlocutore musulmano – prevede uguali diritti per uomini e donne, ma diritti e obblighi sono tangibilmente diversi nella realtà storica dei fatti.
Sharìa, letteralmente “strada battuta”, è la legislazione fondante dell’istituzione del neonato Emirato Islamico. Nel corso degli ultimi decenni, giuristi islamici hanno elaborato una giurisprudenza islamica in linea con la sharìa, il fiqh, diritto islamico, ma l’invasione talebana rischia di incrinare ogni sofisma ed equilibrismo. Ogni sforzo diplomatico rischia di sgretolarsi sotto la possibile reiterazione di una recrudescenza degli stilemi integralisti. C’è chi dice no.
L’aiuto planetario, specie dell’universo della comunicazione, ha da essere convogliato attorno alle figure iconiche di Zarifa Ghafari, prima sindaca del Paese, prima cittadina di Maidanshah; Pashtana Durrani, direttrice della ong “Learn” per l’istruzione e i diritti umani; Malala Yousafzai, giovanissima premio Nobel per la Pace; Fawzia Koofi, attivista ed ex vicepresidente del Parlamento afghano. L’appello di queste giovani donne è comune: “Noi siamo qui, ma aiutateci!”. Oggi più che in passato è lapalissiano quanto un nuovo umanesimo e ogni eterogenesi dei fini sia in mano alla resistenza della donna. Non si parla appena di una remota porzione di mondo.