Le rassicurazioni che i Talebani hanno fornito nei giorni scorsi alla comunità internazionale, circa la loro intenzione di governare l’Afghanistan in modo diverso da quanto avevano fatto dal 1996 al 2001, hanno sorpreso alcuni attori internazionali e mantenuto altri nello scetticismo e nella diffidenza. Eppure, non si tratta della prima volta che il movimento pashtun affronta la questione: lo scorso 28 luglio, una ventina di giorni prima della loro ascesa su Kabul, Abdul Ghani Baradar era volato a Tianjin, in Cina, dove ha incontrato il ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi.

Già in quell’occasione, nella parziale indifferenza degli osservatori, Baradar aveva parlato di un “framework inclusivo, accettato dall’intera popolazione afghana e che protegga i diritti umani, in particolare quelli delle donne e dei bambini”. L’incontro di Tianjin – avvenuto in un momento in cui si parlava ancora di un accordo intra-afghano per una transizione ad esecutivo multi-partecipato, prima della decisione dei Talebani di presentarsi unilateralmente a Kabul – aveva poi affrontato questioni spinose per i rapporti tra Cina e Talebani, con particolare riferimento alla necessità che il movimento pashtun garantisca a Pechino il proprio esplicito rigetto delle attività dell’East Turkestan Islamic Movement (Etim), attivo tra Waziristan pakistano, Xinjang cinese e appunto Afghanistan, dove in passato ha trovato rifugio.

Quello del sostegno o dell’ospitalità data a gruppi che in Cina sono considerati terroristici è un tema dirimente nei futuri rapporti tra Pechino e Kabul, in grado di modificarne il segno in modo deciso. L’incontro di Tianjin da un lato – aggiungendosi a diversi altri incontri istituzionali tra Talebani e autorità di altri attori regionali – mostra la disponibilità cinese ad aprire a relazioni coi Talebani; dall’altro non dovrebbe però indurre ad assecondare ciecamente un refrain abbastanza diffuso, e cioè che l’abbandono dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti implichi un sicuro protagonismo cinese in Afghanistan.

Come ricorda il ricercatore Raffaello Pantucci, è indubbio che Pechino, come da prassi, con i dovuti presupposti esplorerà opportunità anche nell’Afghanistan dei Talebani ma ciò non significa che ciò costituirà una priorità strategica. Finora la Cina – notoriamente interessata a ritorni economici, più che al dispiegamento di un soft power o all’esportazione di valori – ha avuto un ruolo limitato in Afghanistan dal punto di vista economico, nonostante a Kabul ci fosse un governo parzialmente “garantito” dalla comunità internazionale, che ne tutelava limitatamente la stabilità.

Per questo motivo è al momento improbabile che rafforzi la sua posizione, in assenza di sviluppi sul campo che indichino la garanzia di un maggiore margine di stabilità in Afghanistan. Due progetti – lo sfruttamento da parte cinese della miniera di rame di Mes Aynak e del giacimento di Amu Darya, con le relative infrastrutture a beneficio di Kabul – sono al momento in stallo (su Amu Darya, Kabul ha ritirato la concessione, ndr), proprio per via una instabilità che Pechino considera incompatibile con l’avvio di progetti di questo tipo. Insomma, Pechino non ha problemi ad incontrare i leaders talebani ma questo non significa che sia disposta ad investire in un paese nel quale si prevede instabilità perlomeno nel breve termine.

In posizione molto diversa è l’India, agitata da diversi ordini di preoccupazione. Come ricorda Sumit Ganguly su Foreign Policy, New Delhi è uno dei paesi della regione con più interessi in ballo in Afghanistan, interessi maturati nel corso di questi venti anni, che l’hanno resa peraltro il quinto fornitore di aiuti a Kabul. l’India in questi anni ha fornito borse di studio a studenti afghani, offerto assistenza alimentare e contribuito a riassestare la rete elettrica nazionale, devastata dai conflitti. Allo stesso tempo, vista i rapporti con Islamabad, Washington ha sempre fatto in modo che l’India rimanesse “a distanza” nell’ambito degli incontri di carattere politico del Troika Plus, proprio per non indispettire il Pakistan.

Questa esclusione ha aumentato nell’India il timore di non aver pieno controllo degli investimenti in capitale umano e infrastrutture all’interno dell’Afghanistan, specie con l’arrivo dei Talebani. Inoltre, il ritiro americano può produrre o alimentare un altro rischio, di natura simile a quello che potrebbe rendere più problematici i rapporti tra Kabul e Pechino: l’appoggio dei Talebani a formazioni anti-indiane attive in Kashmir – in particolare il Jaish-e Mohammad e Lashkar-e Taiba -, come alla fine degli anni ’90.

La Turchia, infine, sembra per il momento guidata da pragmatismo. Dopo aver accolto in modo tutto sommato positivo gli improvvisi sviluppi di tre giorni fa, riconoscendo la “moderazione” delle prime dichiarazioni dei Talebani, Ankara ha anche deciso di rinunciare al proposito di prendere il controllo della sicurezza dell’aeroporto di Kabul dopo il ritiro americano.

La Turchia, che ha 600 soldati in Afghanistan, qualche settimana fa si era proposta di prendere il posto degli altri contingenti Nato allo scalo di Kabul, avviando discussioni in tal senso anche con Washington e con lo stesso Ashraf Ghani. Un piano che sembra essere stato smantellato dopo critiche di un parte dell’arena politica turca – che teme per l’incolumità delle truppe -, la fuga dello stesso ex presidente afghano, ed i successivi disordini all’aeroporto, preceduti dalle dichiarazioni talebane – precedenti alla loro ascesa su Kabul – circa la contrarietà al mantenimento di truppe straniere all’aeroporto. Ankara ha tuttavia fatto sapere di essere pronta a “fornire assistenza, qualora i Talebani lo richiedano”.

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