Filippo Grandi: "La preoccupazione principale è: arriveranno o no? Li accogliamo o meno? Ma il problema non è ancora in Europa e se facciamo le cose per bene potrebbe non esserlo". Quanto al rapporto con il nuovo regime, "noi umanitari siamo abituati a essere realisti: non tutti i nostri interlocutori ci piacciono, ma sono quelli che abbiamo e dobbiamo lavorare con loro. Occorrerà costruire una relazione e usarla per far pressione sulle cose a cui teniamo"
Il messaggio alla cancelliera Merkel e agli altri leader mondiali? “Aiutate l’Afghanistan e anche noi che siamo sul campo, dandoci i mezzi per continuare ad aiutare chi resta nel Paese“. Filippo Grandi, Alto Commissario dell’Onu per i rifugiati, in un’intervista al Corriere della Sera spiega che in questo momento la priorità deve essere “preoccuparsi dell’Afghanistan per sé” e non della possibile ondata migratoria in Europa, che non è detto arrivi. Tutto dipende, spiega, da come saranno gestiti i rapporti con i Paesi vicini e con quelli di transito”. Infatti “ogni esodo sarebbe in primo luogo regionale: Pakistan, Iran, forse Tagikistan. In quel caso se gli aiuti a questi Paesi non fossero consistenti, allora sarebbe forte il rischio che i movimenti continuino verso l’Europa”. Non va ripetuto, insomma, l’errore fatto nel 2014-2015, quando come riconosciuto anche da Merkel “gli aiuti umanitari a Turchia, Giordania, Libano vennero fortemente ridotti e questo fu uno dei fattori, non l’unico certo, che spinse i siriani a muoversi verso l’Europa”.
“Vedo che la preoccupazione principale è: arriveranno o no? Li accogliamo o meno? Ma il problema non è ancora in Europa e se facciamo le cose per bene potrebbe non esserlo“, ragiona Grandi. La prima urgenza sono i “3-4 milioni di afghani rifugiati nel proprio Paese, sfollati in altre regioni, che hanno urgente bisogno di aiuto. Continuare ad aiutarli in Afghanistan e convincere gli Stati vicini a restare Paesi di accoglienza e asilo è importante. Non farlo rischia di provocare ulteriori esodi oltre la regione”.
Quanto alla opportunità di trattare con chi ora ha preso il potere nel Paese, l’alto rappresentante osserva con pragmatismo che “non abbiamo altra scelta. Noi umanitari siamo abituati a essere molto realisti: non tutti i nostri interlocutori ci piacciono, ma sono quelli che abbiamo e dobbiamo lavorare con loro. In questo momento ci si appiglia, con un po’ di opportunismo, alle evacuazioni, ripeto dovute e sacrosante, ma fra poco finiranno. Dopodiché occorrerà costruire questa relazione e usarla per far pressione sulle cose a cui teniamo”.
Al momento “il pragmatismo mostrato in questi giorni ci dà uno spazio. Abbiamo assicurazioni non del tutto negative” anche sulle intenzioni rispetto ai diritti delle donne. Ci sono stati senz’altro “brutti episodi di violenza, sopruso e caccia all’uomo. Ma noi dobbiamo tener conto dei messaggi ricevuti. Per questo abbiamo deciso di restare”, anche alla luce di una situazione ancora molto fluida: “L’ingresso dei Taleban a Kabul sabato scorso non era stato previsto da nessuno, a mio giudizio neanche da loro stessi. Stanno ancora prendendo il controllo. In più, l’evacuazione di collaboratori e persone legate ai Paesi occidentali, dovuta e legittima, è stata organizzata in modo improvvisato, creando ulteriore panico. Molta dell’agitazione che vediamo nei resoconti mediatici è dovuta al caos di questa operazione”. Ma si riuscirà, con i talebani al potere, a far andare le bambine a scuola e permettere alle donne di lavorare? Una cosa è certa: “Se non siamo lì, se non trattiamo e non abbiamo le risorse non potremo mai accertarlo né ottenerlo“.
Guardando al futuro, poi, “l’Unione europea fa bene a preoccuparsi dell’eventuale ondata migratoria. Lo diciamo da molti anni”. Ma “purtroppo non vediamo alcun progresso sul Patto per le migrazioni proposto dalla Commissione”. Cosa abbiamo sbagliato in Afghanistan? “Sono stato parte di questo progetto, sono stato a Kabul come responsabile dell’Unhcr dal 2001 al 2005. Leggo molti commenti, secondo cui tutto quello che è stato fatto sia da buttar via. Non è così. Ci sono stati progressi importanti, ma anche errori. Quello che mi ha addolorato del discorso del presidente Biden, è stato di dire in sostanza che noi siamo andati a Kabul per combattere il terrorismo e non per costruire una nazione. Ma come si può combattere il terrorismo se non si costruisce una nazione?”.