Joe Biden è disponibile a lasciare le truppe Usa in Afghanistan oltre la scadenza del 31 agosto, “nel caso ci fosse anche un solo cittadino statunitense da condurre fuori del Paese”. Il presidente lo ha annunciato in un’intervista a Abc News, la prima da quando i taleban hanno ripreso il controllo del Paese. Biden difende la sua decisione di lasciare l’Afghanistan, spiegando che non ci sarebbe stata comunque la possibilità di ritirarsi “senza che scoppiasse il caos”. Ma l’amministrazione è al centro di una tempesta politica e di intelligence senza precedenti. Un sondaggio Reuters/Ipsos segnala un calo di popolarità per il presidente di sette punti. Il dato, probabilmente, non dipende soltanto dal caso Afghanistan, ma è comunque un campanello d’allarme preoccupante per i democratici.
Iniziamo dalla questione dell’intelligence. Lo scontro tra amministrazione e servizi Usa appare profondo. Dopo un iniziale disorientamento, Biden e i suoi collaboratori hanno definito la linea della loro difesa. Nessuna notizia di intelligence lasciava presagire un crollo così repentino delle strutture militari e di governo afghane. “Non c’erano informazioni di cui io sia a conoscenza che prevedessero che una forza di sicurezza di 300mila uomini potesse dissolversi in undici giorni”, ha detto Mark A. Milley, il chairman dei Joint Chiefs of Staff, quindi il capo dell’esercito americano e il responsabile delle operazioni militari in Afghanistan. “Come indicato dal presidente, tutto si è dispiegato più velocemente di quanto noi pensassimo – inclusa la comunità dei servizi”, ha aggiunto Avril D. Haines, direttrice della National Intelligence.
L’obiettivo dell’amministrazione è chiaro: reagire all’accusa di aver colpevolmente trascurato gli allarmi che venivano dai servizi, in primo luogo dalla Cia, sulla veloce offensiva di conquista da parte dei taleban. Il fatto è che i servizi Usa, sia pure indirettamente, continuano ad affermare di aver offerto a Biden tutti gli elementi di valutazione del caso. Sul sito di “Just Security”, mercoledì, Douglas London ha scritto che “la Cia ha anticipato il possibile scenario”. London è l’ex responsabile Cia per l’Asia meridionale e occidentale. A suo giudizio, l’agenzia di intelligence aveva chiaramente previsto che “le forze afghane potessero capitolare nel giro di giorni, date le circostanze cui abbiamo assistito”. La tesi è sostenuta anche da un altro ex funzionario Cia impegnato a lungo in Afghanistan. Il suo nome è Marc Polymeropoulos, che su Twitter ha scritto che “l’agenzia ha un ampio gruppo di esperti che sono stati molto chiari per anni, mesi e settimane… Si tratta di un terribile errore strategico da parte dei politici”.
Chi ha ragione? Difficile dirlo con esattezza. Sicuramente non esistono documenti di intelligence che fissino in modo esplicito la tempistica della presa di potere dei taleban. Anche nelle audizioni dei membri dell’intelligence al Congresso, non ci sono indicazioni in questo senso. Altrettanto sicuramente, quello che la Cia e gli altri servizi americani hanno fatto è avvertire dell’imminenza del pericolo in Afghanistan. Come ha scritto ancora Douglas London: “Il collasso sarebbe arrivato a 30 giorni dal ritiro? A 60? Dopo 18 mesi? Potevano essere vere tutte le ipotesi, considerato il verificarsi di certe circostanze”. In altre parole: la Cia non aveva fissato una data per la caduta di Kabul (cosa impossibile, non potendo anticipare lo svolgersi degli eventi), ma aveva comunque avvertito dell’estrema gravità della situazione. Perché l’allarme non è stato ascoltato? Anche qui, è possibile fare solo delle ipotesi. L’amministrazione era impegnata con il passaggio della legge sulle infrastrutture. C’era da gestire la nuova emergenza Covid. Il ritiro dall’Afghanistan era qualcosa in corso da mesi, accolto con favore dal’opinione pubblica americana, negoziato con gli stessi taleban, per il quale era inutile preoccuparsi più di tanto. Sembrava del tutto possibile, e plausibile, avere a disposizione qualche settimana per portare fuori uomini e interessi americani dal Paese, prima che questo ripiombasse sotto il controllo dei militanti islamici.
Così non è stato. La previsione dell’amministrazione si è rivelata un azzardo e una scommessa persa. E ora quindi la linea di difesa di Biden è: nessuno ci aveva avvertito. Considerate le immagini che arrivano da Kabul, si tratta di una linea di difesa molto debole, su cui si sono gettati con furia distruttiva i repubblicani e che lascia preoccupati e divisi i democratici. Le critiche repubblicane erano ampiamente previste. Il G.O.P. ha nel passato appoggiato il ritiro dall’Afghanistan, che era anzi tra le priorità di Donald Trump e della sua dottrina dell’America First. L’occasione politica è ora però troppo ghiotta perché buona parte dei conservatori non ci si getti sopra. “Uno spettacolo imbarazzante, un’umiliazione diplomatica e una catastrofe per la sicurezza nazionale”, ha detto Ted Cruz, senatore del Texas (che lo scorso aprile, peraltro, aveva espresso “felicità” per il ritorno a casa delle truppe). Le critiche repubblicane, più che alle circostanze del ritiro, si appuntano sull’affidabilità politica di Joe Biden. Il presidente, un mese fa, aveva escluso che governo ed esercito afghani sarebbero crollati. E, nel week end della caduta di Kabul, si trovava nella residenza estiva di Camp David, senza percepire, almeno apparentemente, l’entità dell’umiliazione per gli Stati Uniti. È possibile fidarsi di un commander-in-chief di questo tipo, è l’accusa/insinuazione dei repubblicani?
Per i democratici, l’Afghanistan è invece un rebus politico di difficilissima soluzione. Da un lato, il partito non può abbandonare il suo presidente. Biden “deve essere lodato per la sua leadership e per l’impegno eccezionale a chiudere il coinvolgimento americano in Afghanistan”, ha detto la leader della Camera, Nancy Pelosi. Ma nel partito si mescolano sentimenti diversi: vergogna per le circostanze del ritiro, preoccupazione per la sorte dei profughi, dubbi su cosa avverrà nei prossimi mesi. Se un centrista come Bob Menendez (che guida la Commissione Relazioni Internazionali del Senato) dice di essere “deluso per come Biden non abbia chiaramente valutato le implicazioni di un rapido ritiro”, la sinistra del partito appare più interessata alla sorte dei profughi e al loro possibile futuro negli Stati Uniti. Jack Reed, senatore liberal del New England, spiega di “essere profondamente preoccupato per l’evolvere della crisi umanitaria”. In generale la vicenda mostra come il Partito democratico mostri ogni giorno che passa qualche crepa in più. Biden, che nei mesi passati è riuscito a tenere in piedi una coalizione che dalla sinistra di Bernie Sanders andava sino ai moderati di Joe Manchin, ha sempre più difficoltà ad assicurare unità e condivisione di intenti.
Resta l’incognita dei sondaggi, che bisogna però saper leggere con attenzione. Ha suscitato molto clamore il rilevamento Reuters/Ipsos del 17 agosto, che mostra il gradimento per Joe Biden cadere al 46 per cento, contro il 53 per cento della settimana precedente. Una perdita, quindi, di 7 punti. Come rilevato da alcuni analisti, il calo non sarebbe unicamente dovuto al discutibile ritiro da Kabul. Altre questioni – anzitutto il nuovo, preoccupante aumento di contagi e morti per il Covid – potrebbero aver influito sulla diminuita popolarità di Biden. Va tra l’altro segnalato anche un altro elemento. Il 68 per cento degli intervistati pensa che “la guerra sarebbe finita comunque male” a prescindere dall’abbandono americano. E il 61 per cento vuole che l’esercito Usa si ritiri al più presto, “secondo i piani stabiliti”. Un’ampia maggioranza di americani è quindi favorevole a lasciare l’Afghanistan e a mettere fine a una guerra che ha drenato miliardi alle casse dello Stato e ucciso migliaia di persone tra soldati e civili. Da questo punto di vista, Biden paga unicamente le circostanze del ritiro. La scommessa dell’amministrazione è quindi soprattutto una: portare a casa tutti i cittadini Usa e aspettare che i riflettori dei media sulle atrocità afghane si spengano lentamente. È una scommessa cinica, che abbandona gli afghani al loro incerto destino. È una scommessa su cui Biden e i suoi affidano il futuro, ma che porta con sé un’incognita. Nel caso infatti di una ripresa di attentati terroristici riconducibili ai taleban, le immagini del disastroso ritiro da Kabul si ritorcerebbero come un boomerang affilatissimo contro le ambizioni politiche di questa amministrazione e dei democratici.