È da sempre, da ben prima di scrivere le note introduttive alla più recente delle sue incisioni, quella dell’ottobre 2020 per l’etichetta Brilliant Classics, che tra i miei sogni nel cassetto era quello di assistere a una esecuzione di Cavalleria Rusticana, la più grande delle opere veriste della mirabile tradizione melodrammatica italiana, nella sua terra d’elezione, la Sicilia: ieri sera, dopo diverse volte mancate, al Teatro Greco di Taormina questo sogno è stato degnamente e finalmente coronato. È fin dalle prime battute che Cavalleria mostra le vestigia di un tempo che non solo tarda a morire, ma che oggi, più vivo che mai, vuole essere testimonianza e manifestazione di una grandezza di cui la modernità ha sempre più urgente bisogno di nutrirsi.
Gli isolati cromatismi dell’introduzione preludono a una storia, quella narrata dal Verga nella più celebre delle sue novelle, che tragica si consuma nel breve giro di un unico atto inframmezzato dal più struggente dei pezzi d’orchestra di ambito operistico: Mascagni ieri sera riempiva del suo spirito le antichissime mura del teatro greco di Taormina, nel millenario cuore di una Sicilia che è certamente il più privilegiato scenario di una vicenda che dalle sue corali campagne indomita è giunta in ogni angolo del pianeta.
L’Orchestra Filarmonica della Calabria, sempre diretta da uno dei più brillanti giovani direttori italiani, il Maestro Filippo Arlia, ha saputo, insieme a uno strepitoso Coro Lirico Siciliano, rendere onore alla più grande delle intuizioni di Pietro Mascagni, quella che oltre ad avergli dato gloria imperitura nel corso del Novecento, dopo aver solcato i palchi di tutti i più grandi teatri d’opera del mondo, senza età ha attraversato alcune delle più importanti pellicole cinematografiche, tra cui, per puro gusto citazionistico, quel terzo capitolo di uno dei classici di Francis Ford Coppola, Il Padrino, che proprio sull’intermezzo dell’opera costruisce il degno finale di una delle più sanguinose vicende familiari del cinema mondiale: Michael Corleone, oramai giunto alle soglie della terza età, perde, nell’ultimo degli agguati a lui riservati, la giovane, amatissima figlia. Quale miglior scelta se non quella del più dolce, struggente e malinconico dei momenti della Cavalleria per far sì che la figlia cada trafitta da un colpo di pistola tra le braccia del padre che, destinatario originale di quel proiettile, non può far altro che lasciarsi andare in un sordo, sommerso dalle note di Mascagni, grido di disperazione, rabbia e infinita lacerazione.
Mutatis mutandis, è sempre il sentimento della disperazione a tinteggiare di nero anche il tragico epilogo di Cavalleria: pure qui è l’omicidio a farla da padrone, anche qui è l’amore a perdere dinanzi la brutalità umana, quello degli amanti Turiddu e Santuzza, rispettivamente interpretati da due brillantissimi Piero Giuliacci e Patrizia Patelmo. Turiddu muore, ma l’amore, come sempre, rinasce: a suggerircelo è stato, in Prima Esecuzione Mondiale, il sequel di Cavalleria Rusticana di Mario Menicagli, ambientato, dodici anni dopo la storia del Verga, nella medesima Vizzini. Alfio è ora uscito di galera, e Turidduzzu, figlio di Santuzza e Turiddu, corre felice per l’incantevole paese siciliano, in un finale pieno di allegria, gioia e, soprattutto, riscatto.