E ora che faremo? Le Olimpiadi sono finite e le nostre insonnie accaldate non si potranno riempire col tiro con l’arco, i tuffi, il dressage e diversi altri sport che guardiamo una volta ogni quattro anni con smodato, vorace interesse: dobbiamo seguire tutto, non si sa mai un italiano potesse vincere il bronzo e illuminare così la nostra torrida notte africana.
Ai tempi dei greci per le Olimpiadi si interrompevano le guerre. Stavolta non si è interrotta la pandemia, è la pandemia che ha interrotto le Olimpiadi, prima rinviandole di un anno, col rischio di saltarle, poi privandole del pubblico vero, ridotto a pochi compagni di squadra che tifavano in uno stadio desolatamente vuoto.
Sostengo che lo sport è l’epica dei nostri tempi, che talvolta ci fa sentire eroi, per un momento. Con tanti altri ne abbiamo scritto in un libro, Tra Uomini e Dei, che racconta molte storie di questa epica sportiva, in diversi sport. L’Italia dopo l’Europeo, dio sa se ne avevamo bisogno, si è sentita forte, unita, vittoriosa (abbracciami Fabio, abbracciami Fabio, implorava Beppe Bergomi, chiaramente in trance agonistica). Poi le vittorie nell’atletica, che hanno sorpreso tutti nelle gare più nobili dei giochi, velocità, salto in alto: Marcell Jacobs non era certo favorito, dichiarava di aspirare alla finale, Gianmarco Tamberi sembrava fuori forma, delle staffette non si parlava, alla marcia poi nessuno pensava.
In un bel film, Momenti di gloria, si raccontavano le vicende di due britannici vincitori della medaglia d’oro alle Olimpiadi di Parigi del 1920: uno cercava nella vittoria il riscatto dalla discriminazione che viveva in quanto ebreo, l’altro, pastore protestante, correva per Dio. “Quando mi vede correre, Dio si compiace”. Il pastore protestante, che si era rifiutato di correre di domenica, giorno dedicato al Signore, proverà i 400 e vincerà la sua medaglia, con gioia. Il ragazzo ebreo dopo la vittoria è triste e depresso, sbronzo col suo allenatore, un altro discriminato in quanto italiano e professionista ai tempo del dilettantismo. Ai compagni di squadra che osservavano perplessi la scena, il saggio del gruppo dice lasciamoli stare, non è facile digerire una medaglia d’oro.
Insomma, non sempre la vittoria è una garanzia di perdurante felicità: alcuni campioni restano per tutta la vita identificati con quel momento, altri si lasciano andare, non riescono ad adattarsi alla normalità. Francesca Bortolozzi, campionessa mondiale di fioretto, in un’intervista lo ha detto con molto spirito: azzeccare il tempo di cottura degli spaghetti non è come cogliere l’attimo per la stoccata vincente. Rudyard Kipling, il grande scrittore, nella poesia “Se”, indirizzata al figlio, gli dà dei precetti di vita, tra gli altri:
Se saprai confrontarti con Trionfo e Rovina
E trattare allo stesso modo questi due impostori.
In altre traduzioni si parla di successo e fallimento. E per uno sportivo quale successo può essere più grande dell’oro olimpico, e quale fallimento più cocente del vedere sfumare quattro anni di preparazione in pochi minuti, a volte in pochi attimi per un errore, per un centesimo di secondo, per una stoccata giudicata male? Nel mio piccolo, ho perso per un punto uno spareggio per un titolo italiano juniores mezzo secolo fa, so che si prova. C’è una frase molto efficace che caratterizza chi ha vinto e chi ha perso: “Chi perde spiega, chi vince festeggia”.
Chi è stato sconfitto però, se ha carattere, vuole rialzarsi e già pensa a Parigi 2024. Daniele Garozzo ha pianto per non aver potuto difendere il suo titolo di Rio, bloccato dai crampi nella finale. Andrea Cassarà, anche lui infortunato mentre conduceva per 13 a sette, vuole andare a Parigi, anche se è il più anziano della squadra e ha avuto diversi infortuni.
Difficile rinunziare a quei momenti di gloria, all’epica del combattimento. Un tuffatore giapponese è entrato in finale per l’ultima volta, ed era sua ottava olimpiade. Gareggiava con atleti dell’età dei suoi figli. Dopo il suo ultimo tuffo, gli altri finalisti gli hanno tributato una standing ovation che valeva quanto una medaglia. Aldo Montano, il decano della squadra con i suoi 42 anni lo ha detto con disarmante sincerità: ho sempre fatto questo, quello che c’è dopo mi fa paura.
Marcell Jacobs ha detto che si ripresenterà in pista nel 2022: evidentemente, a parte la necessità di salvaguardare il fisico, c’è anche un bisogno psicologico di staccare, di rendersi conto di quello che è accaduto. Di capire come quella medaglia d’oro cambierà lui e la sua vita. Tamberi ha portato sulla pista i suoi cinque anni di sofferenza, racchiusi in quello stivaletto di gesso che ricordava la rottura del tendine d’Achille, poco prima dell’Olimpiade di Rio. Era tra i favoriti, non ha potuto partecipare e il recupero è stato lento, difficile e incerto. In questo caso “rialzarsi” non è solo metafora, è letterale.
Cosa ci insegna infine lo sport? Che è altrettanto difficile imparare a vincere bene e a perdere con eleganza. Valentina Vezzali sapeva vincere ma le rare volte che perdeva ammetteva molto malvolentieri la sconfitta. Due abilità che nella vita fanno un gran comodo: meglio impararle da piccolo. Ma così come ci preme sapere come sono le maestre e i maestri della scuola dell’infanzia e delle elementari a cui affidiamo i nostri figli nel momento più delicato della loro vita, scegliamo sport in cui non conti solo il risultato, in cui l’allenatore non inviti a rimanere a terra per prendere il fallo, in cui non ci siano i genitori frustrati e rabbiosi che incitano alla rissa. Sul campo, in pista, in pedana, si vede chi siamo veramente. Niente trucchi da quattro soldi.