Si sono da poco concluse le Olimpiadi di Tokyo 2020, con l’Italia protagonista che ha fatto incetta e record di medaglie nella sua storia conquistandone 40 – il record precedente era trentasei ottenuto a Los Angeles 1932 e Roma 1960 –, divise in dieci ori, dieci argenti e venti bronzi.
Nell’anno della rinascita per il nostro paese in uscita da un biennio pandemico, ci siamo riscoperti i più bravi a giocare a pallone, a correre più veloce e a saltare più in alto. Tutto bello? Non proprio.
Mentre il calcio è un gioco che vive di regole tutte sue e di cifre fuori dal comune, le Olimpiadi sono sempre occasioni per tornare ad apprezzare le discipline e le competizioni nelle loro forme più pure, nobili e trasparenti ma che mostrano anche il lato dello sport più cinico e beffardo; basti pensare agli atleti che corrono i cento metri che si allenano quattro anni per disputare una gara di 9 secondi e magari finiscono fuori dal podio per un centesimo. Roba da impazzire.
A preoccupare sono le storie di questi ragazzi, molto giovani, atleti formidabili che, se davanti alle telecamere usano un tono giustamente istituzionale, sui social fanno riflessioni e ci aprono un mondo tutto nuovo e allarmante: quello delle immense difficoltà nell’essere schiacciati da una routine sempre uguale fatta di diete, allenamenti e tante rinunce. La paura degli infortuni, che possono bruciare quattro anni di lavoro in un attimo; la depressione e la consapevolezza che, dovessero solo partecipare ma non vincere, aver lasciato la famiglia da piccoli per inseguire un sogno e un possibile lavoro verrebbero visti come un fallimento.
Abbiamo le storie di Gianmarco Tamberi, oro nel salto in alto, che ha portato il gesso del suo precedente lungo infortunio in pista. Filippo Tortu, astro nascente dell’atletica azzurra che non era più riuscito a ripetersi dopo i promettenti inizi e si è visto oscurare da Marcell Jacobs, oro nei cento metri. Tortu è stato bravo a trovare le motivazioni e l’orgoglio dentro di sé e sprintare a più non posso negli ultimi 100 metri della staffetta mettendo la testa davanti agli inglesi, prendendosi l’oro e riprendendosi in parte la scena. Le sue lacrime incessanti mostrano gioia, ma anche tanta tanta sofferenza per un ragazzo di soli 23 anni.
Per non parlare di Irma Testa, primo pugile donna a vincere una medaglia (bronzo) alle Olimpiadi che, come mostrato in un film documentario su di lei, dopo l’insuccesso di Rio 2016 voleva mollare tutto e tornare a casa dalla sua famiglia a Torre Annunziata e trovarsi un lavoretto, pur di togliersi di dosso il peso della pressione e della delusione per il mancato traguardo.
Uscendo dai confini nazionali non si può non citare Simone Biles, la stella americana della ginnastica che ha dato forfait in alcune gare perché alle prese con i “Twisties”, ovvero vuoti interiori quasi claustrofobici da far venire la nausea al momento di approcciare per l’ennesima volta la pedana.
Questi atleti nel duro lavoro ripongono la loro passione, le loro speranze ma anche quelle di chi gli sta intorno, che vede in loro una grossa opportunità per cambiare la propria situazione di vita. Ecco perché il nostro modo di vivere anche la forma più pura e antica di sport che esista come le Olimpiadi è stata modificata dai tempi moderni, fatti di crisi continue e di una cultura di stampo americano di cui purtroppo siamo intrisi costantemente.
Successo o fallimento. Nessuno spazio quindi per la via di mezzo della soddisfazione di un buon piazzamento, per l’aver partecipato o semplicemente per essere arrivato a gareggiare nei posti e negli stadi più belli del mondo. Anche nella comunicazione accade la stessa cosa: hero and zero. Eroe e Zero. Se uno vince diventa l’eroe a cui va contrapposto per forza il grande sconfitto, ovvero lo Zero.
Proprio per questo motivo i ragazzi, da Tamberi a Tortu per citarne solo due, sanno benissimo che la loro luce e ribalta è a tempo e si riaccenderà solamente tra tre anni a Parigi 2024. In questo spiraglio di luce e popolarità momentanea, sui loro profili social, rimarcano con lunghi post di sfogo quanto hanno sofferto per arrivare sin lì e lanciano un grido di aiuto e di monito che se un domani non dovessero ripetersi, saranno comunque un orgoglio per la loro nazione e per la disciplina che praticano a cui va fatto un applauso a prescindere, non degli “zero” su cui puntare il dito per un risultato non raggiunto dopo tanto, tantissimo duro lavoro, rinunce, sacrifici e una routine asfissiante.