“Benvenuti nel dimenticatoio d’Italia”. La frase, scritta con una bomboletta spray su un lenzuolo bianco, accoglie i curiosi e i turisti poco prima di arrivare all’area Sae (soluzioni abitative d’emergenza) di Pretare, nella valle del Tronto, lungo la provinciale 89. Fatta eccezione per qualche camper e qualche auto di passaggio, il silenzio avvolge quel che resta dei piccoli borghi colpiti dal sisma del 2016. Per lo più case distrutte, sventrate dalle scosse che hanno lasciato dietro di loro solo macerie. Neanche dalle aree dei prefabbricati d’emergenza, che ormai hanno ben poco di emergenziale, si sentono voci.

Tutti ricordano molto bene quella notte di cinque anni fa. La concitazione, la paura, a volte l’annebbiamento di non capire bene cosa stesse accadendo. E poi quello che è venuto dopo. Il pianto dei morti, l’attesa di veder ricostruita casa propria e, inevitabilmente, una vita diversa, vissuta in un limbo, come se il tempo si fosse fermato tra il 24 agosto e il 30 ottobre 2016.

“Qui non si fanno programmi, si vive giorno per giorno”, ammettono i cittadini di Arquata del Tronto (Ascoli Piceno) uno dei comuni più colpiti. Aspettano date certe ma per ora nessuno le ha. Nonostante la ricostruzione abbia avuto una forte accelerazione tra il 2020 e il 2021, grazie anche al cambio della struttura commissariale, il quarto in cinque anni, tra Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria, ancora oltre 35mila persone vivono fuori dalle loro case, assistiti all’interno delle Sae o con il Cas, il contributo di autonoma sistemazione, cioè un assegno mensile per sostenere le spese di un affitto. Molti, con ogni probabilità, non ci torneranno più, rendendo così inevitabile quello spopolamento dell’entroterra che tanto spaventava il primo commissario straordinario per il Sisma del Centro Italia, Vasco Errani. I ritardi sono evidenti. Per fare un esempio, alcuni proprietari non residenti sono stati chiamati solo ora, a distanza di cinque anni, per recuperare ciò che è rimasto sotto le macerie.

E non va meglio nelle zone che “rosse” non sono mai state perché hanno riportato danni evidenti solo all’interno delle abitazioni. Come Tolentino, dove 120 terremotati vivono ancora in container, in attesa degli appartamenti sostitutivi delle Sae promessi dal primo cittadino, Giuseppe Pezzanesi. “Un ghetto”, come lo definisce Flavia Giombetti, anche lei terremotata e presidente dell’associazione 30 ottobre, in cui si vive con mensa e bagni in comune. Totalmente private “di una vita dignitosa”, dall’inizio del Covid queste persone sono anche impossibilitate a ricevere visite: nell’area container si entra solo con l’autorizzazione del Comune. Dei grandi cartelli con scritto “alt non entrare” e un’impresa di sicurezza privata controllano gli accessi. Neanche il Green pass può nulla, né la promessa di un tampone fresco di giornata.

Secondo i dati che anticipano l’ultimo rapporto dell’attuale commissario, Giovanni Legnini, però, proprio l’anno del Covid ha rappresentato una piccola svolta per la ricostruzione. Tanto che la foto della prima gru nel centro di Amatrice, scattata a inizio agosto, è diventata un simbolo. Dopo cinque anni qualcosa si muove, ma per chi aspetta il tempo è dilatato e ogni imprevisto, ogni inciampo burocratico, contribuiscono ad aggiungere ansie a una situazione che per molti è diventata insostenibile. L’ombra di un ulteriore stop, poi, è dietro l’angolo: le imprese edilizie sono sature e, dalla scorsa primavera, i prezzi dei materiali sono aumentati vertiginosamente. Preoccupa anche la fine dello stato di emergenza. Il termine è fissato al 31 dicembre, ma c’è chi teme che, senza struttura commissariale, i lavori possano subire una nuova battuta d’arresto.

I numeri – A distanza di cinque anni dalla scossa del 24 agosto, ancora 28mila cittadini del centro Italia percepiscono il Cas (contributo di autonoma sistemazione) un assegno che può arrivare fino a 900 euro, a seconda del nucleo familiare, che serve a pagare l’affitto e che rientra nel capitolo “spese sisma” del dipartimento di Protezione Civile. Settemilacinquecento persone, invece, vivono ancora in Sae, soluzioni abitative d’emergenza. E in 190 vengono “assistiti” in container. A fare la parte del leone, in questo caso, sono le Marche. Nella sola regione si concentrano infatti 16.424 percettori di Cas (con una spesa totale a carico dello Stato che da gennaio 2021 a oggi ha raggiunto gli oltre 39 milioni di euro) e 3984 persone che vivono nei prefabbricati, oltre a 186 ospiti dei container, tra cui 59 studenti nella città universitaria di Camerino. Il Fatto.it ha provato a contattare per giorni gli uffici delle regioni coinvolte, ma non è riuscito a ottenere numeri precisi.

Dodicimila famiglie sono invece tornate a casa, secondo l’anticipazione del terzo rapporto sulla ricostruzione del Centro Italia prodotto dall’ufficio del commissario straordinario. “A oggi sono stati autorizzati e finanziati circa 10.500 cantieri, la metà conclusi e l’altra metà in corso d’opera. I 5mila cantieri conclusi hanno permesso di consegnare oltre 12mila abitazioni, mentre altre 13mila abitazioni sono in fase di recupero”, ha fatto sapere il commissario Legnini. Numeri che, secondo l’ex parlamentare del Pd, dimostrano come “la ricostruzione privata sia decollata” e quel ritardo accumulato si stia pian piano “recuperando”. “Nei primi sei mesi di quest’anno abbiamo autorizzato l’apertura di 3.200 cantieri, ma adesso – sottolinea – abbiamo la sfida più ardua, quella dei centri storici distrutti dove si stanno muovendo i primi passi anche con le ordinanze in deroga”. Intanto sono 20mila, al momento, le domande di contributo alla ricostruzione presentate “di cui la metà approvata”. E se da una parte preoccupano l’aumento vertiginoso dei prezzi dei materiali e la saturazione delle imprese edilizie “che cominciano a scarseggiare”, dall’altra Legnini è convinto che “se riusciremo a mantenere questo ritmo” nei prossimi anni potremo “legittimamente sperare” di essere “una delle ricostruzioni di più ragionevole durata”.

Le voci dei cittadini – Alla vetrina dei numeri, certamente incoraggianti, fanno da contraltare le sensazioni di chi nell’appennino di Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo ci vive. Rassegnazione, rabbia, incertezza. Sono i sentimenti prevalenti che emergono parlando con la popolazione delle aree più colpite. Alcuni non hanno più voglia di apparire, sono stanchi di combattere. Hanno vissuto il sisma, poi l’isolamento per il Covid, “un terremoto dentro un altro terremoto”, come ci raccontavano poco più di un anno fa. E ora vogliono risposte. “Il mio progetto ancora non è stato nemmeno approvato”, ci confessa Antonella Pasqualini, abitante delle Sae di Muccia, nel Maceratese, ormai scoraggiata da una situazione che sembra non sbloccarsi. “Mentre all’inizio c’era più energia, più voglia di fare e speranze, oggi abbiamo capito che il terremoto è passato in secondo piano. Ci stiamo rassegnando a queste soluzioni che dovevano essere d’emergenza, ma che stanno durando da troppo tempo”, spiega rassegnata. A Muccia Antonella ha un’attività commerciale, una tabaccheria con punto assicurazione. Restare è diventato difficile tanto che, potendo tornare indietro, Pasqualini probabilmente farebbe una scelta diversa. Lei negli anni ha denunciato più volte la condizione di vita nelle cosiddette “casette”. “Penso ci abbiano tolto un po’ la dignità della vita stessa. È brutto dirlo ma credo ci sia molta rassegnazione, trascuratezza”, racconta al Fatto.it. E “andare avanti“, ammette, “è uno sforzo che ogni giorno faccio con tanta difficoltà“.

“Per ripulire i paesi dalle macerie per poi decidere dove ricostruire hanno cominciato i lavori lo scorso anno – ci dice invece Vincenza Pala che ora vive nelle Sae dopo aver passato la vita nella piccola frazione di Pescara del Tronto, totalmente rasa al suolo dal sisma, e che ora vive nelle Sae – E ancora non hanno finito. E per la mia frazione non abbiamo ancora certezze né di dove né di quando ricostruiranno”. Una stasi che le recenti ordinanze del commissario straordinario hanno lievemente smosso, ma non abbastanza per ridare speranza ai cittadini di queste zone. “Le istituzioni che ancora parlano di ‘casette momentanee’, soprattutto il Comune, dovevano avere la consapevolezza che non poteva essere un’emergenza che si risolveva in un anno o due. Ci hanno messo loro in una situazione che era precaria e rimarrà precaria“, insiste Vincenza, raccontando come è cambiata la sua vita dopo il sisma. “Prima avevo mamma con me a casa, ma ho dovuto portarla in un istituto perché qui, nelle Sae, non avrei potuto curarla – spiega – Oggi sono cinque anni che ci troviamo nelle stesse condizioni, se non peggiori”. Una data di fine nella mente di chi ogni giorno si alza con il pensiero di voler lasciare il piccolo prefabbricato, non c’è. “Ma non mi sono rassegnata, io sogno di arredare casa, la vedo in piedi – dice ancora Vincenza, che a Pescara del Tronto, prima di andare in pensione, gestiva il bar della frazione – Ma una data certa non ce l’abbiamo. Io non mi arrendo, ma qui siamo tutte persone di una certa età e non so se a 80 anni tornerò mai a casa”.

Anche Flavia Giombetti sogna di poter presto rientrare a casa sua, nel centro storico di Tolentino. Qui le macerie visibili sono poche. Le crepe si notano solo una volta entrati nelle case. Ma anche qui, come ad Arquata, Muccia, Pieve Torina, solo per fare dei nomi, tutto è fermo, cristallizzato. Il calendario nell’androne del palazzo di Flavia è ancora girato su “novembre 2016”. Lei ha lasciato casa il 26 ottobre di cinque anni fa, dopo la seconda forte scossa, quella con epicentro Castel Sant’Angelo sul Nera. Una fortuna, racconta, visto che poi la scossa del 30 ottobre l’ha resa definitivamente inagibile. “A cinque anni dal sisma sto ancora aspettando l’impalcatura fuori, come segno di rinascita – spiega al Fattoquotidiano.it – Perché vedere che si muove qualcosa è veramente una speranza”. Come lei sono in tanti a sperare.

In lista d’attesa per una delle “Sae di Tolentino”, cioè appartamenti che l’amministrazione a guida centrodestra ha deciso di costruire rinunciando ai prefabbricati da installare subito, Flavia dopo anni ha deciso di uscire da questa graduatoria, perdendo però definitivamente il contributo per l’affitto. Degli appartamenti promessi, infatti, a oggi ne sono stati consegnati una manciata, e facendo un giro per la città del Maceratese le impalcature fanno ancora da padrone. “I cronoprogrammi non sono stati rispettati – denuncia Flavia – Ma dietro quelle lettere, per loro senza importanza, ci sono le vite delle persone. Io ho fatto richiesta per avere un appartamento nel 2017, perché la casa mi serviva – commenta ancora – Se si chiamano soluzioni abitative d’emergenza un motivo ci sarà. Altrimenti non è altro che un’operazione immobiliare che però non va fatta sulla pelle dei terremotati”.

La situazione limite – Oltre a essere lei stessa una vittima dei ritardi, Flavia Giombetti da cinque anni lotta anche per chi fa più fatica a farsi sentire. Persone ai margini della società che il terremoto ha ancora di più relegato. A Tolentino infatti si trova il più grande agglomerato di container ancora abitato dall’inizio dell’emergenza sisma. In un’area industriale, tra capannoni e campi, il Comune quattro anni fa ha deciso di installare quelli che Flavia chiama “contenitori”. Con mensa e bagni in comune, in piccole “stanze” con un letto, un tavolino e una televisione, vivono oggi ancora 120 persone. Sono soprattutto anziani soli e cittadini stranieri e non tutti, ci dice Giombetti, sono in realtà terremotati. Nel “ghetto” come lo definisce Flavia, vivono anche molte persone con difficoltà economiche e sociali che l’amministrazione ha sistemato qui “tutte a spese del capitolo sisma della Protezione civile”.

E, come se vivere relegati in periferia e in una situazione precaria non fosse abbastanza, a causa del Covid l’area è stata addirittura recintata. Per evitare di aumentare il rischio di diffusione dei contagi, vista la totale assenza di distanziamento sociale, l’amministrazione guidata dal sindaco di centrodestra, Giuseppe Pezzanesi, ha deciso di consentire l’accesso solo su autorizzazione. Una ditta di sicurezza privata controlla chi entra dal grande cancello, con tanto di cartelli che vietano l’accesso e intimano di fermarsi, e lascia passare solo chi ci vive o chi ha pass. Il Fattoquotidiano.it ha chiesto preventivamente l’autorizzazione per poter entrare, prima concessa verbalmente e poi negata via mail, ma, nonostante la garanzia di Green pass, non è stato possibile accedere, ufficialmente a causa “dell’aumento dei casi Covid”, nonostante la zona bianca. Una contraddizione, secondo Giombetti: “Ci sono persone, o almeno mi auguro che sia così, che non siano relegate dentro come in carcere, che vanno al lavoro. E poi ci sono quelle che entrano per lavorare, come le donne delle pulizie o gli addetti alla mensa. La verità però secondo me è che meno persone vedono quello che c’è e meglio è”. E conclude: “Vivere così, in queste scatole, dal 2017 io lo chiamo scempio, ma l’amministrazione si dimentica che dentro i contenitori ci sono le vite”.

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