Sono tanti, a Cuba, i monumenti che, nel bene e nel male, ne illustrano la storia. E il più bello – perché di gran lunga il meno monumentale, anzi, perché a tutti gli effetti un “anti-monumento” – è certo quello che, all’Avana, celebra un paio di scarpe. O, più esattamente, quello che, laddove l’Avenida de los Presidentes s’approssima al Malecón, ancor oggi mostra, in cima ad un solenne piedistallo, quel che resta della bronzea figura di Don Tomás Estrada Palma, primo presidente della Repubblica di Cuba, abbattuta a furor di popolo nei primi giorni di gennaio del ’59.
Chi però davvero desideri cogliere, con un solo sguardo, tutta la grandezza e tutta la miseria della rivoluzione castrista, deve abbandonare la capitale e, imbarcatosi in quel di Batanó, raggiungere Nueva Gerona, nella Isla de la Juventud. E qui rendere debito omaggio alla candida immagine d’una vacca sacra.
No, non si tratta d’una metafora. Né ovviamente ha, quel monumento, alcun rapporto con la liturgia induista. La statua in questione è quella d’una vera vacca. O, volendo parafrasare il titolo (e il senso) di quello che è stato probabilmente il più bel film di Andrzej Wajda, d’una autentica “vacca di marmo” nella cui bovina, ma molto umana vicenda si specchiano – giusto come nell’“Uomo di marmo” del grande regista polacco – tutti i sogni (svaniti) e tutti i perduranti incubi, tutta la bellezza e tutto il disincanto d’una rivoluzione diventata la triste replica, la caricatura di se stessa. Sogni, incubi, bellezza e disincanto senza i quali è impossibile capire la crisi che oggi, ai tempi del Covid, attraversa Cuba, unico paese al mondo capace di produrre un vaccino “di tutti” – di tutti perché di Stato – e, nel contempo, incapace di usarlo per fronteggiare la pandemia.
Quella vacca si chiama Ubre Blanca, tetta bianca. E alla sua vita, ai suoi miracoli e alla sua morte, ha anni fa dedicato un bellissimo documentario il cineasta cubano Enrique Colina.
Per cogliere fino in fondo il valore simbolico della sua storia, è opportuno tuttavia partire dalle riforme agrarie – la prima il 17 maggio del 1959 – attraverso le quali la rivoluzione vittoriosa di Fidel Castro ha (invano) perseguito due interconnessi obiettivi: la giustizia, in un paese dominato dalla monocoltura della canna da zucchero e dal latifondo, dove l’1,5% della popolazione possedeva quasi il 50 per cento delle terre; e l’indipendenza (intesa soprattutto come indipendenza alimentare) laddove, di questo 50%, quasi il 70% era in mani straniere.
La Storia – una Storia ovviamente troppo complessa per essere raccontata in un post – ci racconta come il sovrapporsi di queste riforme abbia infine non dato la “terra a chi la lavora”, come nell’originale programma del Moncada, ma l’abbia al contrario imprigionata nelle mani d’uno Stato autoritario e inefficiente, da un lato impegnato a scimmiottare, in direzioni che andavano in senso contrario rispetto all’agognata indipendenza alimentare e al superamento della monocoltura, i piani quinquennali di stile sovietico. E, dall’altro, a perseguire – sotto la guida dell’ostentata onniscienza del capo supremo – grandiosi programmi destinati a cambiare i destini del mondo. Grandiosi e tutti finiti in macerie, in una galleria degli errori (e degli orrori) nella quale spiccano, tra gli altri, il cosiddetto Cordón de la Havana – titanico parto fidelista destinato a trasformare in mega-potenza agricola la periferia della capitale – e la più celebre “zafra dei 10 milioni”.
Il più emblematico di questi programmi resta, tuttavia, quello che sul finire degli anni ’70, alimentato dalla passione di Fidel per l’ingegneria genetica – una passione che per molti aspetti spiega l’eccezionale sviluppo della ricerca biomedica che ha portato oggi alla produzione di cinque vaccini anti-Covid – puntò alla creazione, sotto il vigile sguardo del “comandante en jefe”, a un nuovo tipo di vacca – un “impossibile” incrocio tra la razza Holstein, ubertosa figlia delle valli svizzere, e la razza Cebù, africana – capace di produrre, nel calore dei tropici, latte ad un livello mai prima conosciuto.
E così fu, in quello che, a tutti gli effetti, venne definito un “catastrofico successo”. Un successo perché, passati i suoi primi tre anni di vita nel più totale anonimato caseario, all’inizio degli anni ’80, Ubre Blanca cominciò a frantumare uno dopo l’altro – con una generosità che ancor oggi non ha trovato eguali – tutti i record planetari di produzione. Quello annuale, con 27 tonnellate di latte. Quello giornaliero, con 110,9 litri (contro la media Holstein attestato attorno ai 24-25 litri). E infine quello per una singola mungitura, con 41,2 litri. E anche un catastrofico evento, perché fu proprio quello strabiliante trionfo che, infine, uccise la valorosa mucca.
Qualcuno dice che a mandarla al creatore, fu un cancro alla pelle (tipico della razza Holstein) dovuto ad una eccessiva esposizione al sole. Altri affermano che proprio la sua miracolosa capacità di produzione – miracolosa nel senso che sfidava le leggi della natura – aveva finito per devastare il suo apparato mammario. Ubre Blanca se ne è andata, al termine d’una vita breve ed eroica, senza lasciare eredi. La sua prole non è sopravvissuta alle deformazioni – perlopiù mammelle giganti che finivano per staccarsi dal corpo per via del proprio peso – derivate dagli esperimenti genetici che avevano fatto della madre un mostro di produttività. E nel nulla sono finiti tanto i tentativi di fecondare altre vacche con i suoi ovuli ibernati, quanto quelli – che qualcuno sostiene essere ancora in corso – di clonare l’originale.
E di Ubre non resta oggi che questo: un monumento eretto in un paese che, dopo 62 anni di rivoluzione, vanta una produzione di latte (e, più in generale, di generi alimentari) molto inferiore a quelli dei tempi pre-rivoluzione. Un paese dove si producono vaccini e dove gli ospedali cadono a pezzi. Un paese che si specchia ogni giorno, con dolore, nella sua grandezza e nella sua miseria.