“Tra gli organi di vertice di Cosa Nostra non palermitani, Messina Denaro è stato l’unico a seguire il boss corleonese in una pletora di riunioni (organizzative, preparatorie, esecutive), considerabili estrinsecazione del piano stragista” e “dunque Matteo Messina Denaro, presente o non presente alle riunioni di Enna, delegante di un soggetto non individuato o di Riina stesso a quel consesso o finanche assentore in separata sede, condivise in pieno l’oggetto e la portata del piano criminale”. Lo scrivono i giudici della corte d’Assise di Caltanissetta, che nell’ottobre 2020 hanno condannato all’ergastolo Matteo Messina Denaro, l’ultimo dei boss ‘stragisti’ ancora latitante, per aver partecipato alla decisione delle Stragi del ‘92 di Capaci e via D’Amelio. In questi giorni la Corte, presieduta dal giudice Roberta Serio, ha depositato le motivazioni, in cui è descritta anche la consapevolezza del boss di Castelvetrano della Trattativa ‘madre’ tra lo Stato e la mafia, ed il suo attivismo nel ‘livello’ di mediazione che riguarda il contatto tra il boss di Altofonte, Gioacchino Gioè, e Paolo Bellini (l’uomo dei misteri, imputato nel nuovo processo sulla Strage della stazione di Bologna) rispetto alla ‘consegna’ di alcune opere d’arte rubate e della distruzione di alcuni monumenti simbolo dell’Italia.
La figura di Matteo Messina Denaro irrompe nello scenario regionale di Cosa Nostra all’inizio degli anni Novanta, quando il padre, il vecchio ‘don Ciccio’, inizia a scomparire dai radar. “Francesco Messina Denaro, già vicecapo provinciale sin dagli anni ’70, dopo la seconda guerra di mafia, diventò capo della provincia e Mariano Agate, in precedenza capo della famiglia di Mazara del Vallo, il suo vice. Tale carica deve ritenersi essere stata svolta da Francesco Messina Denaro sino al 90-91, epoca in cui dovette ritirarsi dalla scena mafiosa a causa del progressivo peggioramento delle sue condizioni di salute”. È questo il momento in cui Matteo Messina Denaro, all’epoca trentenne, avrebbe ereditato il vertice del mandamento di Trapani. Nel gennaio 1992, all’indomani della sentenza definitiva sul Maxi-processo, il boss Mariano Agate si era consegnato in carcere. Una scelta che, “in luogo di darsi alla latitanza come suggerito da Riina, poteva anche essere stata interpretata da quest’ultimo come un tentativo dell’interlocutore trapanese di sottrarsi alle sue responsabilità nell’aderire integralmente al piano stragista contribuendo alla sua attuazione”.
La corte ritiene che “le famiglie trapanesi, divenute al termine della guerra di mafia dell’81 le più fedeli alleate dei corleonesi, siano state le prime ad essere informate da Riina della nuova strategia mafiosa di attacco allo Stato”. Per questo alla fine del 1991 il capo dei corleonesi avrebbe presieduto alcune riunioni, tra cui una svolta ad Enna ed un’altra a Castelvetrano, in cui disse ai presenti che era arrivato il momento di ‘togliersi i sassolini dalle spalle’. “Può sostenersi che la riunione di Castelvetrano si svolse in epoca successiva al 26 settembre 1991, data in cui venne trasmesso il primo programma televisivo giudicato dai mafiosi offensivo – verosimilmente anche dopo il 7 ottobre 1991, giorno di scarcerazione dagli arresti domiciliari di Filippo Graviano – ed in epoca certo precedente al 2 novembre 1991, data dell’attentato dinamitardo ai danni dell’immobile di Pippo Baudo”, scrivono ancora i giudici. “È da questo momento che i nomi dei Graviano e di Messina Denaro si intrecciano e intersecano le principali vicende della prima metà degli anni ’90 e soprattutto il passaggio della stagione stragista dal focus siciliano a quello peninsulare nel ’93, si divenendo – con una efficace immagine metaforica – ‘il secco e la corda’, come riferito dal pentito Giovanni Brusca”.
Poi iniziò la ‘strategia stragista’ a partire dall’omicidio dell’europarlamentare della Dc, Salvo Lima: “Lo stesso Messina Denaro era a conoscenza che dietro tale delitto ‘eccellente’ si celava una finalità ulteriore di più ampio respiro”, scrivono i giudici, evidenziando le dichiarazioni dell’amico Francesco Geraci, poi divenuto collaboratore, ‘così lo capisce’, alludendo a Giulio Andreotti. All’inizio del 1992, inoltre, l’attuale ricercato di Castelvetrano aveva coordinato la cosiddetta ‘missione romana’, “un momento essenziale della ricostruzione della strategia stragista attuata da Cosa Nostra per raggiungere il fondamentale obiettivo di destabilizzazione dell’assetto istituzionale del Paese”.
Nel corso della permanenza capitolina, il commando capitanato da Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano avrebbe dovuto monitorare alcuni obiettivi sensibili della strategia stragista, dal magistrato Giovanni Falcone al ministro Claudio Martelli e il giornalista Maurizio Costanzo, che durante una puntata del suo show televisivo, dedicata al trasferimento di alcuni boss dal carcere all’ospedale, si era augurato “malattie incurabili per i boss”. “Il contemporaneo svolgimento, rispetto alla vicenda romana, di paralleli percorsi progettuali per l’attuazione dell’attentato a Falcone in Sicilia non sminuisce affatto, ad avviso di questa Corte, l’importanza del tentativo operato dall’imputato a Roma”, scrivono i giudici, che hanno ricostruito anche il tentativo di influenzare l’esito del processo sull’omicidio del capitano Emanuele Basile, operato dal notaio Pietro Ferraro, massone di Castelvetrano.
Episodi che in questi anni sono stati associati ai vari momenti della Trattativa tra lo Stato e la mafia, giudicata in primo grado e per cui, nei prossimi mesi, si attende la sentenza d’Appello. “La trattativa è in fondo la seconda faccia della medaglia della stagione stragista. Con specifico riferimento alla figura di Matteo Messina Denaro occorre poi osservare come lo stesso fosse pienamente a conoscenza – ma non poteva essere altrimenti sulla scorta del suo ruolo – della trattativa principale”. Il progetto di attentare al patrimonio storico-artistico del Paese sarà il filo conduttore di tutte le successive stragi di Firenze, Roma e Milano del 1993, prendendo forma concreta il 5 novembre 1992 “con la collocazione da parte di un gruppo di uomini guidato da Santo Mazzei nel Giardino dei Boboli di Firenze, nei pressi di una siepe, di un proiettile di artiglieria, avvolto in un sacchetto di plastica di color nero, chiuso con nastro da imballaggio”. Inoltre, “la tesi del contatto privilegiato tra Cosa Nostra e terminali delle Istituzioni statali è certamente avvalorata dal tentativo di interscambio opere d’arte vs. alleggerimento delle condizioni carcerarie fra Gioè e Bellini che, seppur non lo possiamo inquadrare nell’ambito della trattativa ‘madre’ certamente ha rappresentato uno dei diversi piani in cui si è inverata l’interlocuzione tra le autorità pubbliche e la criminalità organizzata di matrice mafiosa, livello a cui partecipò Matteo Messina Denaro”.
In merito ai rapporti tra Gioè e Bellini, i pentiti hanno dichiarato che “l’azione mirava ad aprire un canale di comunicazione con lo Stato”. “Fu proprio dalla primavera all’inizio dell’autunno del ’92 che si articolò un complesso – alla fine infruttuoso – negoziato fra Antonino Gioè, uomo d’onore della famiglia di Altofonte, e Paolo Bellini, ambiguo personaggio della storia italiana più oscura, per il recupero di opere d’arte trafugate ad enti pubblici in cambio di benefici penitenziari” per alcuni “sodali, contatti nell’ambito dei quali verrà paventata la possibilità di colpire i beni dello Stato quale nuovo modus operandi della consorteria mafiosa”, si legge ancora nella sentenza.
“Si è consapevoli della sussitenza di alcune discrasie fra le dichiarazioni di Bellini dell’epoca e quelle odierne”, scrivono i giudici riferendosi ad alcune differenze nelle ricostruzioni dell’uomo dei misteri, “ma ciò che conta non è stabilire con esattezza e precisione la dinamica degli eventi si da inferirne la responsabilità penale a carico dei singoli, ma fissarne le linee generali per saggiare le fasi in cui si è agganciato Matteo Messina Denaro”. Tanto che come ha raccontato il pentito Gioacchino La Barbera, anche lui di Altofonte, “Bellini ad un certo punto, verso i mesi di maggio-giugno, chiese a Gioè di attivarsi per recuperare alcune opere d’arte – scrivono i giudici di Caltanissetta – in quanto alcuni soggetti facoltosi erano disposti a sborsare rilevanti cifre pur di tornarne in possesso. Portò all’uopo delle fotografie di opere rubate che, su suggerimento anche di Brusca e Bagarella, consegnò a Matteo Messina Denaro”.
“La primazia di Matteo Messina Denaro all’interno di Cosa Nostra è, altresì, disvelata dal ruolo assunto proprio dall’imputato nel progetto politico di carattere autonomista, rectius indipendentista-secessionista, di ‘Sicilia Libera’, sorto nel 1993, in quella fase storica di grande fermento partitico seguita al terremoto ‘tangentopoli’”. Tra i candidati doveva esserci anche il il futuro senatore trapanese, Tonino D’Alì, recentemente condannato a 6 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Il progetto politico si era manifestato in due diverse entità: l’8 ottobre 1993 a Palermo era stato costituito il movimento “Sicilia Libera nell’Italia Libera ed Europea”; il 28 ottobre 1993 a Catania invece era stata fondata l’associazione ‘Movimento Federalista Lega Sicilia Libera’. “Negli atti costitutivi si prevedeva espressamente che il partito si sarebbe confederato con gli altri movimenti di impronta autonomista del pari sorti nel Sud Italia, in vista dell’obbiettivo finale rappresentato dalla separazione della Sicilia dal resto del territorio italiano per farne una sorta di paradiso fiscale al centro del Mediterraneo, ‘l’isola felice del divertimento..'”. Poi il progetto naufragò e i boss furono costretti a guardare altrove. Per Matteo Messina Denaro invece inizierà la lunga fuga, tuttora dispersa in una caccia che prosegue dagli anni delle Stragi.