I talebani hanno bloccato l’esodo degli afgani che volevano scappar via da Kabul: non sarà più consentito alla gente di partire coi voli americani e con quelli dei loro alleati. L’ultimatum del mullah Abdul Ghani Baradar, il capo dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, ricorda tanto la decisione della Ddr di chiudere le frontiere unilateralmente, quando Walter Ulbricht ordinò nel 1961 – giusto sessant’anni fa – la costruzione di un Muro per dividere Berlino ed impedire ai cittadini della Germania Orientale di fuggire all’Ovest.
Tra lunedì 23 e martedì 24 agosto sono state evacuate oltre 12mila persone da Kabul, secondo quanto ha segnalato la Casa Bianca, utilizzando 15 voli militari Usa che hanno trasportato 6600 persone e 34 voli della Coalizione (con a bordo 4300 persone). Dal 14 agosto al 24 agosto gli Stati Uniti hanno provveduto ad evacuare 48mila persone, alle quali si debbono aggiungere le 53mila trasferite dalla fine di luglio. In totale oltre centomila.
La cronaca incalza. Appena conclusa la riunione in video conferenza dei leader del G7, Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, ha scritto su Twitter quali sono le priorità: “La Nato si sta coordinando per garantire efficaci operazioni di evacuazione. Insieme dobbiamo anche assicurare che i gruppi terroristi non possano di nuovo operare liberamente dall’Afghanistan”. La prima frase contraddice però la seconda: come possono i Paesi della Nato assicurarsi che i gruppi terroristi non operino liberamente in Afghanistan se abbandonano le loro basi e se ne vanno via? Come ci si può fidare dei talebani e dei loro mezzi brutali? Un regime intollerante che adotta nel modo più radicale la sharia, che reprime le donne, la libertà e non osserva i diritti umani?
I media nostrani e soprattutto i giornaloni hanno trasformato il ritiro degli occidentali da Kabul (reso caotico dalla grande paura degli afgani che non si considerano più al sicuro e vogliono sfuggire ai talebani) in una “disfatta” che suscita un dibattito appassionato, esistenziale e persino filosofico (la democrazia come la intendiamo noi occidentali è esportabile?), il che consente di non affrontare il nocciolo duro della questione: dove stanno andando gli Stati Uniti? Per Franco Venturini (Corriere della Sera, 24 agosto), gli interessi Usa nel mondo e il loro ordine di priorità sono profondamente cambiati nell’ultimo decennio. Come l’opinione pubblica americana, sempre più stanca di guerre lontane ed incomprensibili.
Certo, Joe Biden è fortemente criticato, poiché ritiro ed umiliazione sono cose diverse, “ma la tendenza neo-isolazionista già vista con Trump non è destinata a scomparire con Biden o con altri presidenti”. Insomma, Biden ha portato avanti un progetto ben radicato. E poi, siamo sicuri che l’umiliazione non faccia parte del gioco (nel caso specifico, storicamente il Grande Gioco…)?
Occupare ed inondare l’Afghanistan di miliardi che vengono sperperati e rubati non ha più alcuna convenienza geostrategica, per Washington: 145 miliardi in vent’anni spesi assai male, come documenta lo Special Inspector General for Afghanistan Reconstraction (Sigar) istituito dal Congresso americano. Altri scenari incombono e sono considerati più cruciali. Il cinismo della Casa Bianca – persino gli inglesi, i loro più tradizionali alleati, sono stati snobbati nel concertare il ruolino di marcia del ritiro – contempla parecchi effetti collaterali, a cominciare dal risiko del terrorismo. Una gatta da pelare che lascia ad altri. Persino agli stessi talebani: che hanno sbaragliato l’esercito e le forze di polizia afgane ma hanno anche avuto violenti scontri armati contro i seguaci dell’Isis. Troppe guerre si nascondono dietro la “pace” talebana…
“La politica di uno Stato è nella sua geografia”, sentenziò una volta Napoleone, consapevole che non si affronta un conflitto se non si conosce il territorio su cui si andrà a combattere. Escludo che gli americani fossero del tutto ignari degli inghippi in cui si sarebbero infilati, attaccando e rovesciando il regime talebano al potere, vent’anni fa. Sapevano che la geografia dell’Afghanistan è accidentata come la sua storia e la sua politica, aggrovigliate non solo metaforicamente attorno all’Hindu Kush, il cuore montagnoso del Paese che appartiene all’Himalaya, ed è determinante per la sua impervia configurazione nello spiegare le diversità etniche e tribali che caratterizzano l’Afghanistan e che alimenta la sua feroce volontà di indipendenza. Come ben sanno russi ed inglesi che nel XIX secolo ne fecero oggetto di una secolare rivalità coloniale; come hanno capito i sovietici che l’invasero nel dicembre del 1979, in piena Guerra Fredda, ma poi furono costretti a ritirarsi dieci anni dopo; e come stanno sperimentando adesso gli Stati Uniti (e i loro alleati della Nato), dopo vent’anni di occupazione conclusi con un caotico ritiro che ha assunto le dimensioni di una disfatta.
Perché l’intervento Usa, giustificato dall’attacco dell’11 settembre 2001 come “guerra contro il terrorismo”, non ha affatto risolto il problema. Anzi. I talebani, scacciati vent’anni fa, sono tornati più baldanzosi di prima, grazie anche ai sostanziosi aiuti cinesi, pachistani e russi. E, dal 2015, l’Isis ha stabilito una sua “filiale” in Afghanistan. Nel frattempo, la povertà è quasi raddoppiata, nonostante la valanga di aiuti internazionali, passando dal 34 al 55 per cento della popolazione. Esportare la democrazia coi soldi non ha migliorato la situazione, tanto meno con le bombe che non sono riuscite a contrastare né i talebani né l’Isis.
A livello politico, infine, il fallimento è ancor più pesante. La comunità internazionale col presidente Hamid Karzai aveva tentato di risollevare il Paese, senza però riuscire a sradicare i talebani che si erano rifugiati nelle zone tribali e nel Belucistan pachistano. Un Paese impossibile da controllare. Perché l’Afghanistan è davvero un mosaico “accidentato” di etnie e popoli, stretto com’è in Asia Centrale (650mila kmq senza sbocchi sul mare), crocevia tra il mondo iraniano a ovest e quello indiano a est, oltre 35 milioni di abitanti: gli indoiraniani, come i pashtun, sono la maggioranza; i tagiki a nord, i beluci a sud; gli hazara, al centro, discendenti dei Mongoli; senza dimenticare i popoli turcofoni come i turkmeni, gli uzbeki e i kirghisi, al nord. Più le minoranze aimak di origine persiana, pamiri e nuristane.
Un quadro meno complicato è quello religioso: gli afgani sono essenzialmente musulmani sunniti, con un 15 per cento di sciiti (come gli hazara, bersaglio privilegiato dell’Isis). C’è una minoranza animista nella vallata del Chitral, che si infila verso la Cina, ma da tempo è sottoposta a vessazioni musulmane. Le lingue ufficiali sono il pashtun e il persiano afgano detto dari.
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