Quando lui indossava una t-shirt, Mick sfoderava un cappotto damascato da sciantosa; si infilava giacca e camicia e Keith Richards usciva sul palco infagottato in un giubbottone appena uscito dalla naftalina. Yin e Yang, giorno e notte. Eppure Charlie non ha mai abbandonato la sua posizione sul trono del ritmo degli Stones
“Un tocco di jazz e una montagna di pura classe”. Charlie Watts, lo storico batterista dei Rolling Stones, morto all’età di 80 anni, ha sempre avuto una grancassa più jazz rispetto ad un Keith Moon o a un John Bonham. Va bene, ha dovuto guardare mentre suonava, con profonda invidia di milioni di fan, il culo di Mick Jagger per almeno 50 anni, però Charlie la stoffa di colui che sa attendere, misurare, non eccedere, tra cassa e rullante, l’ha sempre avuta.
Da ragazzino nei club londinesi dove suonava già a 18 anni si vestiva con quella distaccata eleganza jazzistica e allo scatenarsi al pianoforte di Jerry Lee Lewis o alle mosse di bacino di Elvis preferiva il gracchiare di certi 78 giri di Jelly Roll Morton o Charlie Parker, tanto che per tutta la vita, parallelamente agli Stones, Watts ha coltivato la passionaccia dei ritmi sincopati prima con la Charlie Watts Orchestra e poi con un più felpato Quintet, trascinato con le soffici e vellutate strisciate di spazzole su piatto e rullante.
Del resto se riascoltate lo Watts di Brown Sugar cos’è se non un sofisticato groove swing al servizio di un rock che si va formando ancora acerbo e spurio? Timido e al servizio di sua maestà quando poteva strafare (Satisfaction), ancora una volta sobrio ma incredibilmente plastico (Sympathy for the devil), Charlie stava lì sul trespolo senza mai volare nell’eccesso di un assolo mai richiesto. “Non mi piacciono gli assoli di batteria”, spiegò una volta. “Ammiro alcune persone che li fanno, ma generalmente preferisco i batteristi che suonano con la band. La sfida con il rock’n’roll è la sua regolarità. Il mio obiettivo è renderlo un suono da ballo: dovrebbe oscillare e rimbalzare”. Comfort zone sì, ma anche naturale e necessaria riservatezza rispetto al sovrabbondare acustico e megalomane del resto della band.
Quando lui indossava una t-shirt, Mick sfoderava un cappotto damascato da sciantosa; si infilava giacca e camicia e Keith Richards usciva sul palco infagottato in un giubbottone appena uscito dalla naftalina. Yin e Yang, giorno e notte. Eppure Charlie non ha mai abbandonato la sua posizione sul trono del ritmo degli Stones (e mai i colleghi gli hanno chiesto di farlo). Vegetariano come Paul McCartney, fedelissimo alla moglie sposata nel 1964, l’ex pilota di Formula 1 Damon Hill ne ha ricordato proprio in queste ore la curiosa mancanza di narcisismo spinto. Proprio in uno dei templi del jazz londinese, il Ronnie Scott’s, Hill aveva incontrato Watts. Ed era il batterista degli Stones ad essersi sorpreso. “Cosa ci fai qui?”, si era rivolto al pilota. E Hill: Per ascoltarti suonare”. “Rimase perplesso. Perché non era egocentrico”, ha twittato Damon. Rolling Stone l’aveva piazzato al dodicesimo posto tra i batteristi di tutti i tempi, ma Charlie, come sempre, ancora una volta, non ne aveva fatto un dramma, anzi. Watts aveva combattuto e vinto momentaneamente un cancro alla gola nel 2004. Per lui gli amati fratelli Keith, Mick, Ronnie erano più che altro una “blues band”. Un’idea un po’ sui generis rispetto al mondo intero che ruotava attorno agli Stones. Viveva nel Devon, allevava cavalli arabi e collezionava tra gli oggetti più disparati: dai cimeli della guerra civile americana fino a diverse auto d’epoca. E tanto per rimanere in tema, mezzo passo di lato, sempre presente, senza mai dare nell’occhio, Watts non aveva nemmeno la patente.