La storia di Ambrogio Crespi, che parteciperà con "Spes contra spem, liberi dentro" al Festival di Venezia. Il Tribunale di sorveglianza ha scritto di lui: "Ha utilizzato la forza della sua arte per combattere le criminalità organizzate. La pena si tradurrebbe in una illegittima duplicazione del percorso di riabilitazione". Se entro il 9 settembre Mattarella non firmasse il provvedimento di clemenza chiesto dalla moglie e da 9 associazioni, per lui si riaprirebbero le porte del penitenziario
Lo scorso 27 luglio era a San Luca, in provincia di Reggio Calabria, per presentare ‘Terra Mia – Non è un paese per santi’, un documentario sulla ‘ndrangheta proiettato in uno dei luoghi simbolo del potere criminale italiano. In piazza c’erano cento persone: chi interessato al film, chi ostile e chi perplesso. Come il sindaco, che si sforzava di spiegare che “la mafia lì non esiste, ma la inventiamo noi del Nord” e che la strage del 2007 a Duisburg in Germania (6 morti ammazzati come ultimo atto di una faida cominciata 16 anni prima) “nasce da un banale bisticcio, quando un Carnevale si tirarono le uova”. L’8 settembre invece sarà al Festival di Venezia, dove Spes Contra Spem, liberi dentro, forse il suo lavoro più profondo dal punto di vista dei contenuti antimafiosi, ha incuriosito non poco la critica. Non è strano tutto questo viaggiare tra premi e riconoscimenti, perché Ambrogio Crespi è un regista talentuoso. Ma è anche – e questo è decisamente inusuale – un condannato con sentenza definitiva a 6 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa.
Un condannato particolare, perché da un lato deve pagare il suo debito con la giustizia per aver raccolto voti per conto dei clan calabresi e dall’altro riceve pubblici encomi per il suo impegno contro la criminalità organizzata. Come quando, nel 2019, convince un gruppo di rapper napoletani a scrivere una canzone anticamorra. Noemi, una bimba di 4 anni, viene ferita da un proiettile vagante durante un agguato e Crespi chiede a questi giovani artisti un gesto di coraggio: “Li ho incontrati e li ho ascoltati, cogliendo una voglia di libertà e di ribellione ai soprusi. Allora ho lanciato l’idea: ‘Ma voi, queste cose, siete disposti a metterle in musica?’ Mi hanno detto di sì ed è nata ‘Ora basta’. La Fondazione di don Luigi Merola ci diede il patrocinio e il brano fu un successo”, con tanto di premio al Giffoni film festival. Oppure quando nel 2014 dedica un film a Sergio De Caprio: Capitano Ultimo, le ali del falco. Rete4 compra i diritti, ma lo trasmette all’una e mezza di notte. Eppure il documentario fa il 7 per cento di share. Crespi diventa amico intimo dell’uomo che arrestò Totò Riina e che oggi si schiera pubblicamente a favore della grazia: “Ha combattuto le mafie con film coraggiosi, che senso ha rieducarlo?”
Sono più o meno le stesse parole, oltremodo lusinghiere, del Tribunale di Sorveglianza di Milano: “Dal 2013 (quando viene liberato dopo 6 mesi di carcere preventivo, ndr) Crespi ha utilizzato la forza della sua arte soprattutto per combattere frontalmente le criminalità organizzate e la loro subcultura, per promuovere la cultura della legalità, della giustizia, della bellezza e della speranza”. I magistrati citano le sue opere, dieci documentari. E chiosano: “I film di Crespi vengono proposti nelle scuole e nelle università, contribuendo a educare le nuove generazioni”. Anche per questo i giudici caldeggiano un gesto di clemenza, perché se scopo della pena è quello di riabilitare, nel caso di Crespi “non avrebbe più senso, in quanto si tradurrebbe in una illegittima duplicazione del percorso di riabilitazione”.
Paradossale sotto molti punti di vista, il caso Crespi fa discutere e fa riflettere. Intanto perché il regista dovrebbe essere in cella per le sue amicizie, scrivono nel 2012 i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Milano, “con malavitosi siciliani, calabresi e campani”. Invece gira l’Italia per presentare film contro la criminalità, avendo ottenuto il differimento della pena. Il Tribunale di Sorveglianza (con parere favorevole del Procuratore generale) lo ha scarcerato in attesa di conoscere la decisione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sulla domanda di grazia, presentata dalla moglie di Crespi, Helene Pacitto, per il tramite degli avvocati Andrea Nicolosi, Marcello Elia e Simona Giannetti, con il sostegno di Nessuno tocchi Caino e altre 8 associazioni. Se il capo dello Stato firmerà entro il prossimo 9 settembre, Crespi sarà libero e la sua pena estinta. In caso contrario, passerà dalla cornice dorata della laguna veneziana al penitenziario di Opera.
La vicenda giudiziaria è nota. Nasce dall’inchiesta sul voto di scambio politico-mafioso che condizionò le elezioni del 2010 in Lombardia, quando l’allora assessore Domenico Zambetti comprò 4mila voti dalla ‘ndrangheta al prezzo di 200mila euro. Molte condanne e qualche assoluzione. E il nome di Crespi indicato come collettore di 2.500 preferenze, raccolte in ambienti criminali. A chiamarlo in causa è un boss della malavita calabrese, Eugenio Costantino, che parla del regista come di un uomo potente, che conosce “gli amici giusti” e manovra consenso. Dalle carte emerge anche dell’altro: i due non si conoscono, non si incontrano mai, non si parlano al telefono. E l’unica volta che un mafioso di piccolo cabotaggio aggancia Crespi per chiedergli di dare una mano a una candidata alle elezioni di Milano nel 2011, lui rifiuta. Da ultimo, i sono i soldi della corruzione elettorale: quei 200mila euro che vengono divisi tra più soggetti, ma al regista non va neppure un centesimo.
“Non voglio essere definito una vittima della malagiustizia né voglio essere paragonato a Enzo Tortora”, premette Crespi a Ilfattoquotidiano.it, parlando della sua vicenda giudiziaria e anche della sua vita. Sgombrando il campo da possibili equivoci: “Sono finito dentro un sistema e ho pagato conseguenze pensatissime. Mi sono sempre considerato innocente ma ormai ho accettato la condanna. Mi confortano le parole bellissime del tribunale di Sorveglianza, che mi hanno commosso e mi hanno convinto che ho fatto bene a non smettere di credere nella giustizia. Continuerò a farlo, in ogni caso”.
In cella Crespi c’è stato prima e dopo la sentenza. Prima, quando fu arrestato il 10 ottobre 2012. Il fratello Luigi – noto alle cronache per essere stato il sondaggista di Silvio Berlusconi – lo va a trovare e gli fa coraggio: “Non smettere di lavorare. Quando tutto questo sarà finito, con il tuo talento, andremo al Festival di Venezia”. Ambrogio non ha voglia di scherzare: “L’ho mandato letteralmente al diavolo. L’impatto con la prigione è stato devastante: lì ci sono soltanto sfiga, dolore e rabbia. Il resto non esiste. Non ci sono capi né boss, anche se qualcuno si atteggia e finge di comandare. Ma non esiste neanche la possibilità di cambiare, di pentirsi davvero e di tornare a vivere. Chi ci rimane a lungo ne esce peggiore, quasi sempre. Mio fratello però aveva ragione. In quei sei mesi ho concepito il documentario su Enzo Tortora e c’è stata la svolta sui temi dell’antimafia e della legalità, dopo aver conosciuto il Capitano Ultimo. Ho sentito un’urgenza, quella di combattere la subcultura mafiosa”.
Spes contra Spem è esattamente questo. Nel 2016 Crespi torna in carcere, all’inizio controvoglia, per girare un film che andrà lontano, in Italia e all’estero, passando per le prestigiose location dei festival ed entrando persino nelle istituzioni, alla Camera e al Senato, anche se la prima nazionale viene proiettata a Opera. Il docufilm è un’istantanea scattata sulle miserie umane, che mette a nudo la mafia e la ridicolizza attraverso le parole dei suoi affiliati, quelli che stanno in cella da decenni e non si pentono. A uno di loro, però, scappa una confessione: “Meno male che mi hanno arrestato, perché così ho salvato i miei figli”. Crespi chiosa: “Quella frase, da sola, vale più di mille discorsi, di mille convegni. Ho sempre sostenuto che rappresentare la malavita in film d’azione è facile ma può essere pericoloso: si riveste il crimine di fascino. Comprendo le ragioni commerciali di registi e produttori, ma combattere la mafia significa demitizzarla”.
Anche da detenuto, Crespi non si fa problemi a palesare ciò che pensa: “Ho ripetuto in continuazione che ‘la mafia è una montagna di merda’, che non bisogna farsi sedurre dei boss, che se ne può e se ne deve fare a meno”. Una volta lo dice alla persona sbagliata e riceve minacce di morte: “È vero, ma non desidero parlarne. Così come non mi considero una vittima, non voglio neppure recitare la parte dell’eroe. Ho detto in cella le stesse cose che dico fuori. Forse era pericoloso, ma ai miei figli ho sempre insegnato che nel mondo ci sono le guardie e ci sono i ladri. E che bisogna scegliere da parte stare”.
“Pannelliano impenitente” e oggi “orfano” del leader radicale, il regista non saprebbe a chi dare il proprio voto ma promuove il governo Draghi “perché riesce a fare, chiamando i partiti alla prova della responsabilità”. Dalla politica, però, vuole stare lontano. “Mi ha procurato troppi guai. Il che non vuol dire stare lontano dall’impegno civile per far nascere anticorpi antimafiosi, soprattutto nelle terre dimenticate”.
Come a San Luca, dove Crespi ha già ottenuto un risultato: uno dei protagonisti del suo film, Benedetto Zoccola, l’imprenditore che da 9 anni vive sotto scorta perché si rifiutò di pagare il pizzo e denunciò la camorra, è stato eletto consigliere comunale d’opposizione nella lista Klaus Davi Sindaco. Gli elettori neppure lo conoscevano, lo hanno visto la prima volta nel 2019 durante le riprese del documentario ‘Terra mia’, lo hanno sentito parlare e poche settimane dopo lo hanno votato. “Un piccolo traguardo – dice il regista – che non è ancora un punto di svolta. Ma per me, che ho adottato questo paesino dove regna degrado e disillusione, è una vittoria bellissima”.