La grandezza di un artista, specie se ha cavalcato più di mezzo secolo di musica, va ricercata non solo nella reazione di chi ne piange la scomparsa e nelle note incise ma anche nelle parole, tante, spese in vita. In questo senso, illuminante è un’intervista rilasciata da Charlie Watts, tre anni fa, alla rivista New Musical Express (Nme) e in queste ore riproposta dal magazine: “Non sono una rockstar – disse – Non ho quel tipo di ornamenti. Detto questo, ho quattro auto d’epoca e non posso neanche guidarle. Non mi è mai interessato che qualcuno chiedesse di intervistarmi né ho mai voluto essere notato. Lo faccio perché mi piace e perché la gente venga a vederci suonare. I Rolling Stones esistono perché la gente viene ai nostri concerti. Non c’è niente di peggio che suonare in un locale di fronte a tre persone – di cui una è la tua ragazza, l’altra un tuo amico – e quello è il tuo pubblico. Se vuoi suonare a Old Trafford, devi riempire i posti”. Linearità e pragmatismo, le stesse identiche qualità che ora tutti si guardano bene dal non riconoscere a Charlie Watts: il ragazzo arrivato alla musica ascoltando Miles Davis e John Coltrane, forgiatosi nel corso delle lunghe maratone jazz londinesi tenendo poi il ritmo e il tempo di quella che è tuttora, forse, la più grande rock band al mondo.
“La fine degli Stones? Se ad andarsene fossero Mick e Keith, non se decidessi io di smettere con la musica”, aggiunse durante la già citata chiacchierata, “Fossero loro a dire “ok, ho dato”, non ho idea di come potremmo affrontare uno show senza”. Un animo onesto, imperscrutabile, rimasto tale anche quando, negli anni ottanta, sprofondò nella dipendenza da eroina rimanendo comunque un metro indietro gli eccessi dei suoi eccellenti colleghi.
La stessa pacatezza Watts la riversava sul suo strumento, distinguendosi così dalla furia assassina di altri a lui (più o meno) contemporanei: su tutti, Keith Moon e John Bonham. “Picchiatori”, per ammissione proprio di Richards. Quell’incedere un po’ swing, dondolante, che non mancava però di dare slancio a canzoni patrimonio della memoria comune: l’amore per il jazz, continuo come quello per l’unica donna della sua vita, è testimoniato non ultimo dalle tante formazioni con le quali in trio, in quartetto o in quintetto ha continuato a girare fuori dall’universo Stones. Per fare un parallelo, la sua storia (certo non la carriera) ricorda quella di un’altra perdita illustre, in ambito sempre musicale: Neil Peart.
Batterista e autore della stragrande maggioranza dei testi dei Rush, arrivato immediatamente dopo i titolari Lee e Lifeson ma ciò nonostante causa, due anni fa, della fine delle attività generali. Indispensabile? Forse. Insostituibile? Sì. La sottile differenza tra l’una e l’altra cosa è quella che porterà quel che resta di una formazione da tempo già passata alla storia (dopo Jones ma anche Taylor e Wyman) a decidere, in cuor proprio, se continuare o meno. Il tutto, si spera con la consapevolezza a monte che quel che doveva essere, è sicuramente già stato.