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Nel corso degli ultimi anni, accanto all’Alp (polizia locale afgana) e alla Territorial Force (ibrido che comprende civili e ufficiali dell’esercito) si sono formate infinite milizie locali, qualcuno ne ha calcolate almeno duemila. Ma sia l’Alp sia la Territorial Force sono state oggetto di infinite accuse d’abuso di potere e consolidando, di fatto, un senso di impunità che ha portato spesso le popolazioni locali a osteggiarle.

Come un paio d’anni fa aveva spiegato Ahmad Anis, capo del consiglio provinciale di Nangarhar, c’era un problema “con tanti, se non tutti, gli ufficiali, i capi delle milizie, l’Alp e la Territorial Force. Quasi tutti loro fanno affari sporchi o hanno legami coi talebani o l’Isis. E’ una minaccia seria. Le forze che dovrebbero essere di sicurezza partecipano a rapimenti o cooperano coi terroristi…”. Se catturano un nemico, basta una bustarella e subito lo liberano. Facile per i talebani far leva sulla rabbia e l’indignazione.

Non a caso, gli americani provano a mettere in campo un nuovo corpo di polizia, la Kwost Protection Force: secondo il New York Times, era la Cia che reclutava i membri, li formava e li equipaggiava. Però anche il Kpf pare si macchi di violenze, torture, financo crimini di guerra. La ferocia ha sopraffatto tutto, come se non esistesse altro, da una parte come dall’altra. L’Isis con le sue barbarie (decapitazioni di bambini, stupri di bambine). Le forze governative con i soprusi quotidiani e la corruzione. I talebani con la loro pretesa di coprire il Paese di una cappa di piombo e di oscurantismo. Ma restano gli interlocutori del fragile potere di Kabul, e questo non da oggi, ma da almeno un decennio.

Il tentativo di avviare un dialogo coi talebani da parte del presidente Karzai si risolve in un insuccesso, né va meglio al nuovo presidente Ashraf Ghani, eletto nel 2014. I talebani pongono come pregiudiziale il ritiro delle truppe straniere e un regime ispirato all’interpretazione più intransigente della sharia. Il governo di unità nazionale è infetto dalla corruzione, e controlla solo due terzi del Paese. Quando comincia il progressivo ritiro delle forze della Coalizione, è evidente che si sarebbe aggravata l’instabilità. Nato ed Usa avevano sul campo 130mila uomini, ne restano 16mila. Nel 2017, tra combattimenti in zone di guerra e attentati urbani, le vittime civili sono 13mila, di cui 1300 solo a Kabul.

Si prova a addestrare e sviluppare un esercito afgano che arriva a 300mila unità, ma è un esercito mal preparato e ancor peggio attrezzato. Le diserzioni sono una piaga. Per di più, nel 2015 era comparsa Khorasan, la filiale afgana di Daesh, lo Stato islamico, cui si aggregano molti ex talebani pachistani scacciati dalle zone tribali. Il loro bastione diventa la provincia di Nangarhar, teatro di attentati e scontri con l’esercito e le forze di polizia afgane (supportate da qualche milizia locale) e con i talebani, che non tollerano la concorrenza dell’Isis.

La questione della sicurezza blocca la crescita economica, che resta la più bassa dell’Asia. Tutte le risorse, infatti, vanno a finire nelle tasche dei corrotti (anche a Washington) e in armamenti, spesso obsoleti. E però, la posizione dell’Afghanistan è strategica, tanto che India e Cina hanno fatto molti investimenti e avviato parecchi progetti di cooperazione con Kabul, soprattutto in ambito regionale. Per esempio, l’asse marittimo e terrestre tra Mumbai (India), il porto di Chabahar (Iran) e Kabul, una iniziativa frenata dalle sanzioni Usa. I talebani hanno subito fatto sapere che con loro al potere, le sanzioni americane non saranno osservate e Teheran ha ricominciato a rifornire Kabul di petrolio, su richiesta dei talebani.

Un’altra iniziativa è quella dell’asse Casa1000: portare l’elettricità dell’Asia Centrale (dal Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan) all’Afghanistan e al Pakistan. Fa il paio con il vecchio progetto “Tapi”, il gasdotto dal Turkmenistan all’India, i cui lavori sono stati riavviati nel 2015. Quanto alla Cina, sta sviluppando la ferrovia che attraverserà l’Afghanistan nell’ambito delle “nuove vie della seta”, in alternativa si sta creando il corridoio Lapislazzuli che collegherà l’Afghanistan all’Europa via mar Caspio e Turchia.

Ovviamente, tutto è da relativizzare, poiché sinora il solo settore afgano in espansione rimane quello della droga, che nel 2017 avrebbe registrato, secondo fonti Onu, un incremento del 63 per cento. Com’è noto, un terzo del fatturato generato dai talebani proviene dal traffico di droga (sempre secondo l’Onu: 460 milioni di dollari).

Comunque, giocando la carta sia nazionalista che religiosa, i talebani non solo hanno promesso di cacciar via “gli empi occidentali” e di proteggere il Paese dallo Stato Islamico, ma di normalizzare la situazione riducendo la violenza interna e garantire una certa stabilità economica, a partire dalla lotta senza pietà contro la corruzione. Contano sull’aiuto (concreto) di Pechino, su quello di Islamabad, sugli aiuti dal Golfo, in particolare dal Qatar che ospitava a Doha l’ex capo talebano Haji Mohammad Idris, responsabile della “commissione economica”, appena nominato governatore della Banca Centrale. Secondo certe stime, per far funzionare lo Stato occorrerebbero almeno 7 miliardi di dollari. Ma la crisi economica è in agguato. Le banche sono chiuse, non hanno più accesso ai generosi finanziamenti esteri.

Ajmal Ahmadi, l’ex governatore della Banca Centrale che se l’è svignata da Kabul, tratteggia un futuro nerissimo: “C’è da aspettarsi una catastrofe umanitaria e un’ondata di migranti”, perché sinora l’Afghanistan si è sorretto in piedi grazie agli aiuti stranieri, “se i talebani vogliono evitare il collasso, dovranno rispettare l’impegno ad un governo inclusivo”, rispettando i diritti umani e i diritti delle donne. Il che non pare.

Per concludere, i talebani saranno ostaggio degli aiuti cinesi, delle ingerenze russe e delle attenzioni (storicamente mai molto gradite) di Iran e Pakistan, paesi “fratelli” ma anche “coltelli”.

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