Era il 26 agosto 2016, un normale venerdì di fine estate, qui in Italia ma anche negli Stati Uniti, dove iniziava mollemente la stagione NFL con le amichevoli prestagionali. Prima del match tra San Francisco 49ers e Green Bay Packers se ne accorse più di qualche sporadica persona, a differenza di quello che era successo prima delle due amichevoli precedenti dei 49ers: Colin Kaepernick, quaterback della squadra di San Francisco, restava seduto durante l’inno nazionale statunitense. Tra chi se ne accorse, anche dei giornalisti e opinion leader che ne iniziarono a scrivere sui social media. Per questo motivo, a Kaepernick fu chiesto di spiegare perché assumeva quell’atteggiamento. Tramite il sito NFL.com, dichiarò: “Non mi voglio alzare in piedi per mostrare orgoglio nei confronti di una bandiera di un Paese che opprime le persone di colore. Per me, questa è una cosa più importante del football e sarebbe egoistico da parte mia guardare dall’altra parte. Ci sono corpi per strada e persone che uccidono e se la cavano davanti alla legge”.

Kaepernick sottolineava la violenza brutale delle forze dell’ordine nei confronti delle persone di ogni colore di pelle diverso dal bianco, pensando ad esempio a Mario Woods, ucciso da 20 colpi di pistola dalla polizia perché si era rifiutato di gettare a terra un coltello. Dopo queste parole, niente sarebbe stato più uguale nel rapporto tra sportivi e società civile. Passano sei giorni infatti e, dopo aver incontrato e parlato con l’ex berretto verde e giocatore NFL Nate Boyer, il quale gli consiglia non di restare seduto ma di inginocchiarsi durante l’inno, ecco il gesto che diventa iconico: Kaepernick piega il ginocchio e viene per la prima volta seguito da un suo compagno di squadra, Eric Reid.

Nello stesso giorno resta seduto durante l’inno anche Jeremy Lane dei Seattle Seahawks, tre giorni dopo sarà Megan Rapinoe a inginocchiarsi prima della partita tra Seattle Reign e Chicago Red Stars. La campionessa di calcio allargherà lo spettro semantico di quel segno di protesta, dicendo che “in quanto gay americana, so cosa significa guardare quella bandiera e sapere che nel Paese non si fa tutto il possibile per proteggere le libertà individuali”. Da quel momento in poi, un vero e proprio diluvio. Il 9 settembre Brandon Marshall, linebacker dei Denver Broncos, si inginocchia prima di una partita di stagione regolare dell’NFL e c’è il primo contraccolpo: l’azienda di servizi digitali CenturyLink strappa il contratto di sponsorizzazione firmato con Marshall.

Arriva l’11 settembre 2016, il giorno del ricordo e del dolore per gli americani. Tanti giocatori si inginocchiano e a spiegare il loro gesto in quel giorno così speciale per ogni americano è Arian Foster dei Miami Dolphins, dichiarando: “Io amo il mio Paese e tutte le libertà che permette, ma non posso lasciare che l’amore per un simbolo prevalga sull’amore per il prossimo”. Le istituzioni iniziano a prendere sul serio le proteste e a contrattaccare. Il 7 settembre, per evitare che Rapinoe si inginocchiasse prima della partita tra Seattle Reign e Washington Spirit, si decise di far suonare l’inno nazionale prima che le atlete scendessero in campo. Poi però la controffensiva diventa più dura, con l’allora presidente Donald Trump che si schiera apertamente contro chi si inginocchia, portando a un livello ancora più alto lo scontro, ponendo un focus speciale su chi ha innescato tutto, Colin Kaepernick, che è stato licenziato dalla sua squadra, mai considerato da nessun altro team NFL, nonostante fosse uno dei migliori quaterback in circolazione, e in poche parole estromesso di forza dal suo mondo.

Ma il suo gesto non è stato sepolto insieme al suo essere giocatore. Gli effetti nel mondo dello sport professionistico sono innumerevoli. Pensiamo alle ultime Olimpiadi e all’onore fatto a Naomi Osaka di accendere il braciere olimpico. Quella scelta è figlia del gesto di Kaepernick, per dire al mondo che l’atleta del futuro, come fa la Osaka, è una persona che agisce nella società con i suoi pensieri e le sue parole, non solo con il suo corpo. Sempre a Tokyo la più grande ginnasta contemporanea, Simone Biles, ha detto no di fronte alle pressioni sovraumane che un atleta deve affrontare, ma anche da un punto di vista di diritti nei confronti delle Corporation, gli atleti dopo quel gesto hanno ottenuto tantissimo.

L’esempio massimo su tutti è l’accordo tra NBPA (l’associazione giocatori) e NBA, che nel 2020 dopo le proteste per il ferimento di Jacob Blake e la serrata per il Black Lives Matter hanno dato il via a una serie di iniziative concrete per supportare l’integrazione delle minoranze e i diritti civili. Oggi la pagina Wikipedia di Kaepernick lo definisce un “attivista e giocatore di football”, con l’indicazione sportiva messa in secondo piano. Ma se Colin Kaepernick non è da tempo e forse non sarà mai più uno sportivo nel vero senso della parola, resterà comunque nella storia dello sport, perché con un gesto semplice ma fortissimo ha aperto una nuova porta.

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