Come nasce la débàcle afghana? La mia esperienza dentro le istituzioni è che il livello politico ignora persino l’esistenza di un filone di studi di alto livello relativo ai failed states e al nation building. Questo, in Italia, accade perché il governo, e in particolare il Presidente del Consiglio, non ha un suo Council of Economic Advisers all’interno del quale, se non ci fossero esperti di development e di nation building, ci sarebbe tuttavia con grande probabilità qualcuno che perlomeno sospetti l’esistenza di questi studi/studiosi, ne intuisca il valore e sia in grado di interfacciarsi con loro, prendere contatto, dialogare; e riportando le idee più generali al caso concreto, sottoporre infine al governo delle alternative con i probabili costi e benefici, rischi e opportunità. Ovvio, le teorie vanno applicate al caso concreto, ma con una preparazione teorica uno si orienta molto meglio.
Quando studiavo “Development Economics” a Oxford, con Paul Collier e C. (e scusatemi!), frequentavo il Queen Elisabeth House, veneranda istituzione specializzata in Terzo Mondo, sviluppo e soprattutto failed nations. La Presidente Frances Stewart fu anche mia relatrice di tesi. Avendo respirato quell’aria, nel 2004, pochi giorni prima dell’attacco Usa a Saddam, le istituzioni italiane mi chiesero una analisi cost-benefit di una eventuale partecipazione alla “ricostruzione” dell’Iraq. All’epoca c’era l’idea che si sarebbero potuti avere ricchi contratti e soldi facili per le nostre aziende. Fra le cose che feci, contattai diversi miei compagni di corso, colleghi del Centre de Developpement dell’Ocse e dell’Unctad, dove ho lavorato successivamente: amici che a quel punto lavoravano in varie istituzioni nazionali o internazionali. Grazie a loro, mi resi conto che gli americani non avevano nessun piano di nation building.
Mi colpì il racconto di un amico dell’Onu. In una riunione a Ginevra era stata messa all’ordine del giorno la protezione del museo archeologico di Bagdad. Ma gli americani avevano detto non solo di non avere alcun piano in proposito, ma non erano interessati: al punto che se n’erano andati a metà riunione. Per me era un segnale di quello che sarebbe successo. Perciò scrissi nella mia relazione che dopo la presa di Bagdad ci sarebbe stata una finestra di 30-45 giorni di calma, durante i quali i diversi attori avrebbero valutato i nuovi arrivati: era cruciale indirizzare le aspettative, per evitare spinte divergenti, anche coinvolgendo gli attori chiave in un processo di ricostruzione istituzionale. Il problema fondamentale di una failed nation è il coordinamento degli agenti, da riportare dentro uno “Stato” (da costruire). A tal fine è essenziale gestire le aspettative fin dall’inizio: le aspettative del tempo t+1 sono figlie del tempo t.
Scrissi che gli americani non si rendevano conto e non avrebbero lanciato una strategia sostenibile. Che pertanto dopo i primi 45 giorni la situazione dell’ordine pubblico sarebbe degenerata, dopodiché l’Iraq sarebbe diventato una palude senza rimedio. Pertanto, in nessuno scenario l’Italia nell’insieme avrebbe guadagnato con la sua presenza. Difatti il favoloso museo archeologico fu saccheggiato, contribuendo all’insorgere del caos: i disordini e gli attentati iniziarono puntualmente.
Non è solo questione di expertize? Certo: la storia ha un seguito. Il mio capo mi disse che “Berlusconi vuole andare in Iraq, dunque io non posso presentargli uno studio con queste conclusioni… le devi rovesciare!”. Saltarono fuori anche non meglio identificati presunti interessi di “un sottosettore di Confindustria”, “amici”, “che hanno interesse a andare in Iraq”. Quando risposi che io non rovesciavo nulla e che facesse lui con la sua firma sotto, fui trasferito in una stanzetta e, fino alle elezioni del 2006, privato di ogni incarico. Non so che fine fece la relazione.
L’Afghanistan è figlio di quell’esperienza. Stesse logiche, stessi attori. La comunità di esperti di failed nations e development ha guardato per anni con sconforto e rassegnazione all’azione dell’Occidente nell’antica Bactria. Una sintesi del punto di vista – non di oggi, di sempre – della comunità scientifica è riportata in questo link. Noi oggi diciamo: “Gli americani hanno gestito male l’Afghanistan”. Ma noi italiani, bravi a gestire le situazioni locali dialogando con tutti, stavamo dentro a una strategia persa in partenza, e non abbiamo mai avuto la capacità di dire al nostro alleato che la strada da percorrere era un’altra. L’Occidente “che ha fallito” siamo anche noi. La gente in Italia se ne rende conto, nonostante la retorica dei giornali; difatti c’è molta solidarietà verso i profughi: ci sentiamo, e giustamente, responsabili. Solo che non abbiamo la capacità di analizzare da dove nasce il nostro fallimento e come porvi rimedio.
Molti ora criticano le modalità del disimpegno americano. Ma questa ritirata è figlia dell’infelice gestione del ventennio precedente. Il ritiro non può essere fatto all’improvviso: deve essere annunciato. L’annuncio cambia subito le aspettative di tutti. Sicché man mano che il ritiro determina un vuoto di potere, gli agenti si comportano di conseguenza. I talebani: avanzano! Gli altri: cercano di mettersi d’accordo con loro! Ciò crea una accelerazione esponenziale del crollo del potere uscente.
Un forte esercito afghano doveva coprire la nostra ritirata? Ma poi sarebbe stato al servizio di chi, se le forze anti-talebane non hanno trovato il modo di coalizzarsi in uno Stato che media fra gli opposti interessi? Se poi l’unico Stato credibile è quello talebano, la gente si acconcia in tempo reale: lo Stato afghano e il suo esercito non possono coprirci. In alternativa, si poteva tentare una evacuazione dei civili protetta da una forte military surge occidentale. Ma per motivi domestici i nostri leader, dopo 20 anni di gestione insipiente, non potevano più mandare altri soldati. Perciò quello che vediamo è l’unico risultato possibile.