di Davide Trotta
Se la categoria docenti, da tempo immemore sepolta nell’oblio, da un anno e mezzo a questa parte balza agli onori delle cronache è di certo grazie al Covid. E poco importa se questo onore sia in realtà un onere, considerato che il corpo docenti è stato perlopiù scomodato in riferimento alla didattica a distanza, foriera inizialmente di fazioni pro Dad-no Dad, come se l’Italia non fosse già abbastanza divisa in partiti, rivalità calcistiche e finanche culinarie (arancino o arancina?).
La mal digerita didattica a distanza, una volta inoculata nel sistema scolastico nazionale, ha generato ulteriori disparità di trattamento tra docenti costretti a farla da scuola e altri autorizzati a svolgerla da casa, discrepanze visibili in scuole pur a pochi chilometri di distanza nella stessa città. Ma in fin dei conti sin dai Guelfi bianchi e Guelfi neri fa parte del patrimonio genetico italico contrapporre, etichettare, dividere. E il Covid certo presenta difficoltà gestionali notevoli, ma può altresì essere l’occasione per una svolta strutturale su più piani, dall’economia alla scuola, che per l’intelaiatura arcaica che la caratterizza fin dagli edifici scolastici ha visto con la pandemia ancor più marcate le proprie crepe tradizionali.
Ma a far raccogliere ai docenti la definitiva consacrazione nelle cronache è il vaccino che ci inietta un’ulteriore (over) dose di divisioni, docenti vax e no vax, con lievissimo stigma verso questi ultimi, “soltanto” depredati dello stipendio e sospesi dall’insegnamento. D’altra parte “divide et impera” (dividi e comanda) è antica sentenza della politica. Ma far guardare il dito per impedire la vista della luna è l’operazione qui messa in atto: l’ennesimo frazionamento della categoria insegnanti, per altro storicamente una delle più omologate, vale a offuscare l’essenza del problema:
1. il libero arbitrio, per cui se non ti vaccini sei un pericoloso eversivo, e quindi stigmatizzato come no vax, evocativo di no tav, e quindi di realtà contrastive, anti sistemiche, suscettibili di essere combattute, tanto più nella scuola dove generalmente fedeltà e obbedienza al dirigente scolastico sono fortemente auspicate per una serena permanenza;
2. le condizioni dei lavoratori della scuola, precarie e ancora esposte al rischio Covid, a detta dello stesso Ricciardi, consigliere del Ministro Speranza.
Insomma, la probabilità di classi e pullman pollaio è assai alta e pare difficilmente scongiurabile un esito diverso dal solito.
A tacere della validità o meno del vaccino, questione dibattuta dagli stessi Nobel, risulterebbe vaccinato più del 90% dei lavoratori della scuola, numeri quasi bulgari che rendono inspiegabile l’accanimento contro questa categoria di lavoratori, per cui il vaccino non potrà certo essere più necessario di quanto lo sia per il personale sanitario, che annovera tra le proprie file medici cosiddetti no vax eppure ancora in servizio.
Il problema sta nella consapevolezza che ha la politica circa le proprie colpe e talora scelleratezze nella gestione di uno dei settori pubblici più trascurati, appunto la scuola, comparto di lavoratori un po’ azzoppati dal punto di vista delle prerogative giuridiche e economiche e più facilmente attaccabile per compiacere le famiglie, cellula della società e quindi serbatoio di voti a tempo debito.
Insomma, in tutti gli altri settori i lavoratori, vax o no vax, potranno più o meno pacificamente convivere, almeno fuori dalle mense, braccio a braccio, mentre singolarmente (o sinistramente) nella scuola questa possibilità viene negata. La scuola che, giova ricordarlo, è sempre stata additata tra gli ambienti più ameni, confortevoli e sicuri ove trascorrere le proprie ore in tempi di Covid, adesso diviene il luogo principale a cui viene richiesto il vaccino. Appare evidente il tentativo di cesellare uniformemente sotto colpi di scalpello gli artefici e fautori dello spirito critico di generazioni di studenti.
Ma, per arrotondare meglio i conti, manca all’appello l’esercito dei precari, ai quali si sono da poco magicamente dischiusi gli aurei regni del posto di ruolo: i beneficiari di questa sacra unzione draghiana sono perlopiù docenti di prima fascia che hanno conseguito l’abilitazione (su tutti il Tfa, sostitutivo della vecchia Ssis autrice di migliaia di immissioni in ruolo), equiparabile a un concorso per preparazione e superamento di prove sostenute. Nota la diatriba su questi docenti di prima fascia: per Azzolina erano tutti da infilare nel calderone del recente concorso, per la Lega erano da immettere in ruolo.
Draghi è sempre parso orientato verso la soluzione leghista, anche se tra fare il concorso e immettere in ruolo ci sta di mezzo… il vaccino. E sarà un caso ma la decisiva virata verso l’immissione in ruolo coincide con l’imposizione del vaccino per i lavoratori della scuola, molti dei quali, rimanendo supplenti, sarebbero eventualmente potuti sgattaiolare, mentre, accettando l’immissione in ruolo, sono diventati sicuri acquisti per il vaccino. Onore e gloria per l’immissione in ruolo, ma non sapremo mai se tanta magnanimità si sarebbe usata anche in mancanza di un vaccino da fare.
Quel che è certo è che in caso di interessi impellenti la politica italiana sa mostrare momenti – se pur rari – di celerità e organizzazione che sarebbero auspicabili anche quando prima o poi torneremo alla normalità. Insomma non è tutto oro… quel che Covid.