Una reazione calibrata, pensata e non per questo meno vendicativa, alla storica sfiducia incassata il giugno scorso. È fondamentalmente questa la ragione principale delle dimissioni del primo ministro svedese Stefan Löfven, destinato a passare alla storia come il leader socialdemocratico meno carismatico nell’album dei ricordi della monarchia parlamentare del Paese scandinavo. Questa la lettura data anche dai reporter ed opinionisti politici più accreditati (come Mats Knutson ed Elisabeth Marmorstein dell’emittente televisiva pubblica Svt). Nella storia politica della Svezia non era mai accaduto che il Parlamento sfiduciasse un premier. Löfven ha appunto giustificato scelta e tempi della sua mossa, con una fiducia corale ormai venuta meno e con la necessità di farsi da parte per consentire al successore di costruirsi un’immagine pubblica, in tempo per la campagna elettorale del prossimo anno.
Cronistoria. Da dieci anni leader socialdemocratico, da sette primo ministro, Löfven si è trovato a raccogliere i cocci di un partito che non ha saputo adeguarsi alle nuove esigenze di una classe media più intraprendente ed imprenditoriale, frutto di quella rinascita economica, risorta dalle ceneri della crisi finanziaria del ’94. Ha dovuto destreggiarsi nel labirinto delle liberalizzazioni costruito dal predecessore di centrodestra, il conservatore del Partito Moderato Fredrik Reinfeldt (premier dal 2006 al 2014), che ha di fatto smantellato il vecchio modello del welfare svedese. Ivi compresa la gestione di quelle case di riposo in cui, col dilagare del Covid19, le visite esterne sono state bloccate con ritardo siderale, e conseguente strage di anziani. Löfven ha anche dovuto fare i conti con un’impennata di criminalità organizzata, sparatorie in strada e morti, senza precedenti, e che il suo governo non ha saputo arginare. La recrudescenza e la violenza dei reati, secondo sondaggi condotti dalla società Novus per conto di Svt, sono rimasti tali da preoccupare più del Covid19, in certe fasi. Il premier dimissionario ancora, ha fronteggiato l’immigrazione biblica del 2015, l’attentato terroristico del 2017 (il camion lanciato sulla via dello shopping di Stoccolma), la trionfalistica e sfacciata avanzata dell’estrema destra. Alle elezioni del 2018 è sopravvissuto con un’alleanza partorita dopo quasi cinque mesi, tra: socialdemocratici, Verdi, il Partito di Centro (storicamente molto più a destra che a sinistra) e Liberali. E infine la pandemia, la cui gestione è stata di fatto delegata all’Autorità per la Sanità pubblica, guidata dall’ormai celeberrimo Anders Tegnell, statistico (e non virologo) che per dieci mesi ha dubitato dell’efficacia delle mascherine e caldeggiato una sorta di autogestione delle restrizioni da parte dei cittadini. L’esito è finito sotto le telecamere del mondo.
Eppure neanche questo ha pesato sulla scelta dell’epocale sfiducia, quanto quel nodo cruciale dello stato sociale, messo in discussione dalla crisi degli alloggi: la svolta storica, nella culla della socialdemocrazia stretta che aveva sempre garantito un tetto a tutti, di aprire ad un sistema di affitti non calmierati, liberalizzati, per incentivare i privati a costruire quei nuovi appartamenti, che Stato e Comuni hanno smesso di fabbricare da almeno dieci anni. Questo ha fatto sì che il Partito di Sinistra si mettesse di traverso in Parlamento, insieme al Centrodestra, all’estrema destra e ai cristianodemocratici. Le fratture di oggi e di domani. E la questione affitti ed alloggi, che ha visto crescere la schiera dei nuovi senzatetto, sarà anche oggetto di trattative dirimenti per l’approvazione del “budget d’autunno”, cioè il Bilancio, che Löfven ha strategicamente mollato ai posteri, come a voler dire: “Mi avete sfiduciato facendomi passare alla storia di Svezia per questo? Vediamo un po’ come ve la cavate con qualcun altro al posto mio”. Oltre all’affaire casa, definito come “fattore scatenante” della crisi di governo, ci sono altri tre punti sui quali, a giorni ormai, le parti si dovranno scannare, con una freddezza nordica sempre meno algida. Il Partito di Sinistra esige riforme del sistema di assicurazione sanitaria (in affanno da anni), e del fondo contro la disoccupazione (vacillante, è stato rinforzato durante la pandemia ed ora si chiede che il provvedimento da temporaneo diventi permanente). Chiede si fermi l’erosione del finanziamento al welfare, tassazioni più eque e più investimenti per l’uguaglianza sociale, il clima e la transizione verde. Il Partito di Centro, in astio con la Sinistra per antico sentire, si punterà su più posti di lavoro e, come sempre, l’assistenza alle aree rurali che vuole ripopolare e rivalorizzare. Su queste questioni nevralgiche poseranno anche le fratture future con ogni probabilità, anche se lo scenario politico svedese degli ultimi anni ci ha ormai insegnato che il colpo di scena è sempre dietro l’angolo, allestito da alleanze improbabili ma efficaci, da divorzi e matrimoni tra fazioni che un tempo sarebbero state inimmaginabili.