La più irrazionale delle spiegazioni, in mancanza d’altre, per una coincidenza davvero singolare: il diplomatico su cui cade oggi lo stigma del fuggiasco? E’ figlio del ministro che fuggì per davvero, dopo l’8 settembre ‘43, con Savoia-Badoglio e tutta la corte al seguito, lasciando gli italiani alla mercé delle armi tedesche. Come una coazione a ripetere la storia, ma senza possibilità di riscatto dalla Storia, passata sotto silenzio. Non si placano le polemiche sul precipitoso rimpatrio dall’Afghanistan dell’ambasciatore Vittorio Sandalli che lo stesso ministro Di Maio ha dovuto difendere: “Lui voleva restare, noi abbiamo deciso di rimpatriarlo per portalo all’Unità di crisi della Farnesina e tenere gli operativi sul campo”, lasciando cioè solo un presidio diplomatico all’aeroporto. Scelta che però non hanno fatto i governi europei, giacché gli ambasciatori tedesco, francese e inglese sono rimasti fino all’ultimo sul campo, rientrando non il 16 agosto – giorno della resa ai talebani e all’indomani della fuga del presidente Ashraf Ghani – ma solo negli ultimi due giorni. Motivo per cui sul “caso Sandalli” sono già arrivate le prime interrogazioni parlamentari. Chiede ad esempio l’onorevole Delmastro Delle Vedove (FI) di conoscere “quali siano state le valutazioni che hanno portato al rientro in patria e quali per scartare l’opzione di mantenerlo a Kabul, al pari di alcuni omologhi europei”.
La vicenda ha dato adito anche a varie suggestioni. La più ricorrente è il parallelo tra la ritirata americana d’oggi e l’ignobile fuga del re d’Italia e del generale Badoglio dopo l’8 settembre ’43, che ricorre a giorni. Ancora ieri Massimo Giannini, a In Onda su La7, ha associato i due drammatici momenti della Storia. L’accostamento poteva suonare forzato, ma la Storia fatta di corsi ricorsi e fughe precipitose sorprende sempre: il caso vuole infatti che l’ambasciatore in questione, Vittorio Sandalli sia proprio figlio del generale Renato Sandalli, quello che – l’indomani dell’8 settembre – ad armistizio già firmato, s’imbarcò sulla corvetta Baionetta assicurando la fuga alla casa reale e al governo. Senza superiori e senza ordini, ormai alla mercé dei tedeschi, esercito e civili furono facili vittime delle rappresaglie nazifasciste. Al pari delle talebane d’oggi, cui il ritiro di truppe e rappresentanze occidentali ha spianato la strada: Afghanistan 2021, l’Italia del 1943.
Le auto del corteo con Badoglio e Vittorio Emanuele III, partito alle 6 del mattino dal ministero della Guerra, furono fermate tre volte dai blocchi nazisti nella Capitale; ma furono lasciate andare ogni volta: erano targate “Corpo diplomatico”. Perché la diplomazia in fuga, oggi come allora, è inarrestabile. Il corteo arrivò al molo di Ortona, dove l’aspettava la corvetta della Marina pronta a salpare. Una folla di disperati tentò allora, inutilmente, d’imbarcarsi per Brindisi. Si aggrappavano alle gòmene, si buttavano in acqua. Proprio come gli afghani all’aeroporto di Kabul, schiacciati attorno ai cargo Usa Boeing C-17, aggrappati alla carlinga in decollo a costo di precipitare nel vuoto. Afghanistan 2021, l’Italia del 1943.
La parentela dei Sandalli “in fuga” dalle armi incrocia così la Storia, partendo da quella minuscola delle colpe dei padri che (non) ricadono sui figli. La coincidenza è nota a pochi. Giusto negli ambienti dell’Aeronautica militare, da cui padre e figlio sono passati, che considerano l’8 settembre una macchia indelebile sulla divisa. Non trova per altro facili riscontri. Fonti aperte non ne fanno menzione, nessun riferimento nei curricula o in atti ufficiali. Quelle istituzionali, a richiesta, non confermano né smentiscono. La Farnesina a domanda risponde: “C’è la privacy”.
Quella a corrente alternata, certo. Perché quando si è trattato di far bella figura, la privacy non contava: è stato proprio il Ministero degli Esteri, infatti, a pubblicare sui social la famosa foto del console Tommaso Claudi rimasto a Kabul, a differenza dell’ambasciatore, mentre trae in salvo un bimbo all’aeroporto, diventando per questo l’emblema contrario dell’Italia che “non fugge ma aiuta”. Anche il profluvio di interviste che ne è seguito è stato certamente autorizzato dalla stessa Farnesina che oggi, alla richiesta del Fatto di contattare Sandalli risponde: “Vogliamo evitare sovraesposizioni”. Lo stesso Sandalli, contattato alla mail ufficiale, non risponde. Alla fine la verifica del segreto di Pulcinella è sempre uno scherzo: Sandalli è proprietario a mezzo della villetta nel quartiere Tor de Cenci, che fu abitazione romana del padre. Resta da capire perché in Italia, anno 2021, non sia possibile sapere (quasi chiedere) se un alto funzionario della diplomazia in carica sia figlio di un ex ministro.
Dietro questa parentela celata, e non da oggi, possono esserci anche legittime esigenze di “protezione”, se di questo si tratta. La Storia a volte presenta il conto ai fuggitivi, e non sempre in forma di comodi esili in Portogallo. Il 23 ottobre del 1968, all’età di 71 anni, il generale Sandalli Renato, due volte capo di Stato Maggiore e ministro, associato alla sarabanda in fuga come “uomo-chiave” dell’operazione prese la Beretta calibro 9 di ordinanza e si sparò. “Soffriva di arteriosclerosi”, dissero i carabinieri che svolsero – rileggendo le cronache di allora – “un’inchiesta-lampo con un velo di impenetrabile silenzio”, adombrando così il sospetto che si volesse evitare che venissero alla luce dettagli sulle “vergognose trattative coi nazisti che costarono la vita a centinaia di migliaia di italiani”.
Sulla figura di Renato Sandalli il giudizio degli storici resta diviso. Il generale fu certamente uno dei protagonisti (e degli ultimi testimoni) dei 43 giorni di oscure manovre con cui il governo e la casa reale, alle spalle degli italiani, decisero di consegnare l’Italia ai tedeschi pur di garantirsi la fuga. Partecipò anche al consiglio della corona durante il quale fu annunciato l’armistizio. Scrisse allora “L’Unità”, non certo clemente coi fuggitivi, che nell’occasione il generale si mostrò “particolarmente critico nei confronti di chi consegnava l’Italia ai nazisti”. E che, raggiunta Brindisi, “fu uno degli ultimi a partire”. Vista la difficoltà dei contemporanei, saranno forse altri storici a ricostruire come siano andate davvero le cose a Kabul. A distanza di 7mila chilometri e di 78 anni dalla prima fuga costata il sangue degli “altri”.