“Il 29 agosto 1991 è stato assassinato Libero Grassi, imprenditore, uomo coraggioso, ucciso dalla mafia, dall’omertà dell’associazione degli industriali, dall’indifferenza dei partiti, dall’assenza dello Stato.” Questo il testo del cartello scritto dalla figlia Alice in via Alfieri a Palermo dove trent’anni fa è stato assassinato il padre.

Libero Grassi, di famiglia antifascista, antifascista lui stesso, laureato in Giurisprudenza, intraprende la carriera imprenditoriale con grande successo prima a Milano e poi a Palermo, senza mai rinunciare alla militanza politica, alla sacrosanta passione di essere, di manifestarsi, di battersi per le proprie convinzioni, prima con il Partito Radicale e poi con quello Repubblicano.

Consapevole di essersi messo in rotta di collisione con il potere mafioso farà pubblicare sul Giornale di Sicilia questa lettera aperta, pochi mesi prima del suo assassinio: Volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere. Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al ‘Geometra Anzalone’ e diremo no a tutti quelli come lui.

Perché dobbiamo riflettere sulla vita di Libero Grassi? Perché nella sua vicenda è luminoso il collegamento tra antifascismo e antimafia: in Italia non può esservi l’uno senza l’altro, perché l’antifascismo è il presupposto dell’antimafia, essendo il fondamento della Costituzione repubblicana che, come ha più volte ricordato don Ciotti, è il più importante manifesto antimafia che abbiamo. Finalmente Claudio Durigon è fuori dal Governo: chissà che non sia l’occasione pure per lui di fare qualche approfondimento.

Dobbiamo riflettere sulla vita di Libero Grassi perché proprio il suo assassinio servì (!) ad aprire la stagione delle norme a tutela degli imprenditori che denunciano il racket, l’usura, che si fanno testimoni d’accusa nei processi, puntando il dito senza reticenze. Ma le norme vanno manutenute, migliorate, attentamente applicate: il lavoro su questo è fermo! Troppe vittime vengono ingoiate dalla burocrazia e dalle contraddizioni irrisolte. Le associazioni che assistono le vittime vanno sostenute, non mortificate, perché l’unione fa la forza, soprattutto contro la mafia.

Ma soprattutto dobbiamo riflettere su una circostanza: i trent’anni dall’omicidio Grassi segnano simbolicamente l’avvio del grande giro di boa della Storia nostra. I “trent’anni da”: i trent’anni dalla guerra tra Stato e mafia, guerra che lo Stato non ha perso ma che non ha neanche vinto. Guerra che è stata in gran parte combattuta cordialmente dallo Stato, ma anche, almeno in parte, gestita sotto banco per finalità non ancora del tutto chiarite. I “trent’anni da” inizieranno con la elezione del nuovo Presidente della Repubblica (un po’ come accadde trent’anni fa): che presidente sarà? Sarà un presidente che rappresenterà, come disse in un indimenticato passaggio l’onorevole Renato Brunetta intervenendo alla Camera nel 2013 durante la discussione per la fiducia al Governo Letta-Alfano, di “pacificazione nazionale” o sarà un presidente (magari una Presidente!) rappresentativa della discontinuità con il grumo di potere consolidatosi trent’anni or sono?

Vedremo, ma intanto siamo certi di una cosa: Libero Grassi vive!

Libero vive nello sforzo quotidiano di tanti imprenditori che difendono il proprio lavoro dal racket e dall’usura con la sua stessa fierezza.

Libero vive nella lotta dei braccianti agricoli sfruttati nelle nostre campagne che alzano la testa e si organizzano.

Libero vive nella lotta dei lavoratori e delle lavoratrici licenziati con un messaggio, che occupano le fabbriche.

Libero vive nella lotta delle donne che si battono contro le discriminazioni sul lavoro, che denunciano i trattamenti penalizzanti e la mancanza di sicurezza.

Il conflitto tra il lavoro e chi ne abusa, per profitto e con violenza, non è finito, hanno soltanto provato a farcelo credere.

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