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Afghanistan, gli Usa dovrebbero concentrarsi di più sulla trasparenza della propria informazione

di Andi

Non c’è giornale più politicamente corretto del Corriere della Sera, così corretto che leggendolo difficilmente si comprende cosa un giornalista voglia dire; d’altronde, se non lo fosse stato non avrebbe vissuto a cavallo di tre secoli. Ma a volte vengono invitate importanti firme tanto da esserne attratto anche io: una di queste appare il 27 agosto col titolo “Perché gli Usa hanno fallito in Afghanistan” (tradotto dall’Economist) ed appartiene al Nobel per la pace, Prof. Henry Kissinger.

L’articolo inizia chiedendosi “come mai l’America si sia ritrovata a dare l’ordine del ritiro, con una decisione presa senza preavviso”. Eppure l’ordine era di dominio pubblico col trattato di Doha già da marzo del 2020, dove gli americani si impegnavano a lasciare l’Afghanistan entro 14 mesi dalla pubblicazione del trattato. A conti fatti siamo in ritardo di tre mesi.

Il professore prosegue comparando la fuga da Kabul con quella di Saigon nella notte tra il 29 e il 30 aprile del ’75; si tratta di una leggerezza che in questi giorni sono tanti a commettere: mentre nel primo caso si è trattato di una resa concordata, nel secondo gli americani sono scappati poiché i nordvietnamiti avevano circondato Saigon. La fuga è stata improvvisata nel giro di una notte e il colonnello Stu Herrington racconta alla Bbc di come abbia preso l’ultimo elicottero vuoto abbandonando 420 sudvietnamiti ammassati nell’ambasciata con la scusa di dover andare in bagno.

Dopo qualche fatto storico, Kissinger spiega come “erigere uno Stato democratico moderno in Afghanistan, dove i decreti del governo vengano rispettati da un capo all’altro del Paese, richiede anni, se non decenni”. Pensa che l’Italia è uno stato democratico pluridecennale ed ancora non si riesce a far rispettare i decreti.

Ma “la costruzione di una nazione (…) ha richiesto un ingente spiegamento di mezzi militari”. E mi chiedo a cosa serva questa concentrazione di forza alla salute della democrazia, considerando, tra l’altro, che “la distruzione delle basi talebane era stata essenzialmente terminata”. Eppure gli investimenti maggiori in Afghanistan sono stati allocati al mantenimento delle basi militari più che alla ricostruzione politica ed economica del paese.

Ma, secondo il professore, la vera colpa è data dall’“introduzione di forme di governo inconsuete” che “ha indebolito l’impegno politico e incoraggiato la corruzione già dilagante”. Quindi il progetto democratico americano fallisce per colpa degli afgani corrotti, guarda caso al potere grazie allo schema politico occidentale. Bisogna ricordare al professore che quando il governo era in mano ai Talebani, questi, pur di rimanere fedeli ai loro più che questionabili principi, hanno spesso rifiutato di farsi corrompere dalle lusinghe delle lobby statunitensi che volevano l’Afghanistan un crocevia per le loro vie petrolifere. Per non parlare del mercato dell’oppio che era quasi sparito, oggi rinvigorito dalla nuova politica. Sicuramente gli Usa sono riusciti ad esportare la corruzione meglio di quanto abbiano fatto con la democrazia.

Kissinger, comunque, propone anche un’”alternativa possibile”, ossia cercare di contenere piuttosto che annientare i ribelli talebani, qualsiasi cosa significhi. Ma soprattutto gli Usa avrebbero dovuto esplorare un “percorso politico-diplomatico” con i “paesi confinanti” affinché questi non potessero “sentirsi profondamente minacciati dal potenziale terroristico dell’Afghanistan”. Quando, invece, erano proprio i paesi confinanti a fomentare ed incentivare gli atti terroristici afgani.

Infine, il professore conclude dicendo che “l’America non può sottrarsi al suo ruolo di attore chiave nell’ordinamento internazionale”. Ma, considerando che fino ad ora questo ruolo ha generato un circolo vizioso di guerra e terrorismo, forse è meglio che gli Usa se ne sottraggano e promuovano maggiormente lo sviluppo della propria democrazia attraverso una informazione più trasparente di quella firmata dal professore.

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