Manjur Kha Pathan, 40 anni, era alla guida del camion per 12-13 ore al giorno. Si era lamentato perché l’impianto di aria condizionata non funzionava più. Il 9 febbraio 2021 si è sentito male nel suo alloggio ed è morto prima che arrivasse l’ambulanza.
Sujan Miah, 32 anni, era un tubista impegnato in un progetto nel deserto. È stato trovato morto nel suo letto la mattina del 24 settembre 2020. Nei quattro giorni precedenti la temperatura aveva superato i 40 gradi.
Tul Bahadur Gharti, operaio edile, è morto nel sonno il 28 maggio 2020 dopo aver lavorato per circa dieci ore con una temperatura che aveva raggiunto i 39 gradi.
Suman Miah, 34 anni, operaio edile, è morto il 29 aprile 2020 dopo un lungo turno di lavoro con una temperatura di 38 gradi. Il governo del Bangladesh ha offerto alla famiglia un risarcimento equivalente a circa 3000 euro, che però sono stati destinati a ripagare debiti contratti con i procacciatori di lavoro in Qatar.
Yam Bahadur Rana, guardia di sicurezza in un aeroporto, un lavoro che lo obbligava a rimanere seduto per lunghe ore sotto il sole, è morto sul lavoro il 22 febbraio 2020.
Mohammad Koachan Khan, 34 anni, intonacatore, è stato trovato morto nel suo letto il 15 novembre 2017. Anche la sua famiglia ha ottenuto assistenza dal governo del Bangladesh ma anche in questo caso la somma ricevuta è stata usata per ripagare i debiti pregressi.
Questi sei lavoratori migranti, le cui storie sono al centro di un nuovo rapporto di Amnesty International sul Qatar, godevano di ottima salute e avevano superato gli esami medici obbligatori prima di partire per il Golfo.
Le statistiche ufficiali del Qatar mostrano che dal 2010 al 2019 sono morti 15.021 stranieri di ogni età e occupazione. Su buona parte di questi decessi, le autorità locali non hanno indagato nonostante le prove che fossero collegati alle condizioni di lavoro.
Le autorità locali, infatti, sono solite emettere certificati di morte senza condurre adeguate indagini, attribuendo i decessi a “cause naturali” o a generici problemi cardiaci. Questi certificati impediscono di reclamare un risarcimento a famiglie già in grave difficoltà dopo aver perso il loro unico percettore di reddito.
Il rapporto di Amnesty International, basato sull’analisi di 18 certificati di morte emessi tra il 2017 e il 2021 e su interviste alle famiglie dei sei lavoratori migranti deceduti, mette in evidenza la rischiosa correlazione tra condizioni climatiche estreme e turni di lavoro eccessivi e fisicamente sfibranti. Dei 18 certificati di morte esaminati da Amnesty International, 15 non hanno fornito informazioni sulle cause alla base del decesso limitandosi a espressioni quali “grave crisi cardiaca originata da cause naturali”, “non precisata crisi cardiaca” o “acuta crisi respiratoria originata da cause naturali”.
Il fatto che un’elevata percentuale di decessi sia attribuita a “disturbi cardiovascolari” rischia di oscurare l’altro fatto che un gran numero di decessi resta senza spiegazione. Questo è quanto indicano anche i dati provenienti dagli stati dell’Asia meridionale, dai quali arriva la maggioranza dei lavoratori in Qatar. Ad esempio, i dati ufficiali del Bangladesh mostrano che nel 71 per cento dei casi di connazionali morti in Qatar tra novembre 2016 e ottobre 2020 il decesso è stato attribuito a “cause naturali”.
Un’indagine del Guardian ha rivelato che, nel 69 per cento dei casi di lavoratori provenienti da India, Nepal e Bangladesh tra il 2010 e il 2020, il decesso è stato attribuito a “cause naturali”.
Uno dei principali rischi per la salute dei lavoratori migranti in Qatar, ampiamente documentato quanto prevedibile, è dato dall’esposizione a temperature estreme e a tassi elevati di umidità. Nel 2019 uno studio condotto dalla rivista Cardiology ha trovato una correlazione tra caldo e decessi di lavoratori nepalesi in Qatar e ha concluso che “almeno 200 dei 571 decessi per problemi cardiovascolari dal 2009 al 2017 avrebbero potuto essere evitati”.
Fino a poco tempo fa la principale protezione contro i colpi di calore era il divieto di lavorare all’esterno in determinati orari, tra il 15 giugno e il 31 agosto. Nel maggio 2021, l’inizio del periodo è stato anticipato al 1° giugno e sono state introdotte due nuove misure: il divieto di lavorare all’esterno quando l’indice che misura caldo e umidità supera una determinata quota e il diritto dei lavoratori di fermarsi e presentare un reclamo al ministero per lo Sviluppo amministrativo e gli Affari sociali se temono un colpo di calore. Manca tuttavia ancora una misura fondamentale: periodi di riposo proporzionali alle condizioni climatiche e alla natura del lavoro. Il diritto dei lavoratori ad “autogestire” i ritmi di lavoro nella stagione calda, a causa dei rapporti di lavoro estremamente iniqui non risulta particolarmente utile.
Le autorità del Qatar, uno degli stati più ricchi del mondo, hanno non solo tutte le possibilità ma anche l’obbligo di cambiare questa situazione. Amnesty International chiede loro di rafforzare le leggi sulla protezione dei lavoratori dalle temperature estreme introducendo periodi di pausa obbligatori e migliorando le procedure di indagine, di certificazione e di risarcimento per i decessi dei lavoratori migranti.