di Maurizio Donini
Il problema salariale in Italia è un fenomeno assodato che pone il nostro paese agli ultimi posti nella classifica europea relativa al potere di acquisto, come ricorda Andrea Garnero, economista Ocse: “La stagnazione dei salari è un fenomeno globale, ma in Italia si presenta in forma più estrema e durevole. Abbiamo alle spalle un periodo lunghissimo, di 15-20 anni, associato alla fine della crescita economica nei primi anni 2000”.
Come sottolineato su La Repubblica: “Gli italiani guadagnano in media 30.028 euro lordi, 12.400 meno dei tedeschi, ma al netto anche meno degli spagnoli. […] Nelle aziende con meno di nove dipendenti l’ora lavorata rende fino al 27% meno che in quelle con più di 250 lavoratori”. Un over 50 guadagna in media il 20% più di un under 30 e la differenza di genere pesa per un 10% a scapito dell’occupazione femminile. Già a febbraio 2019, Il Sole 24 Ore pubblicava uno studio dell’istituto di ricerca European trade union institute, da cui risultava che i salari reali (le retribuzioni aggiustate al costo della vita) sono calati del 4,3% tra 2010 e 2017, dopo essere cresciuti del 7,3% fra 2000 e 2009. L’Italia risultava tra i fanalini di coda dell’Eurozona, con una flessione appena inferiore a quella della Spagna (-4,4%) e sulla scia dei record negativi di Croazia (-7,9%), Portogallo (-8,3%), Cipro (-10,2%) e Grecia (19,1%).
Illuminata sulla via di Damasco, recentemente la Cgil ha diffuso uno studio effettuato sulle retribuzioni degli italiani, da cui risulta che i salari dei lavoratori italiani sono fermi da 20 anni. L’organizzazione guidata da Maurizio Landini annuncia che a ottobre chiamerà i protagonisti di lavoro e politica a confrontarsi su questo modello salariale che, a suo dire, ha avuto il merito di inquadrare nei contratti nazionali l’80% dei dipendenti italiani, ma da anni mostra la corda.
Peccato che sia proprio la Cgil fra i responsabili dell’attuale situazione. Dopo avere contribuito (assieme a Cisl e Uil) al collasso del debito pubblico negli anni Ottanta con le norme introdotte su pensionamenti anticipati e scala mobile, con il beneplacito di partiti in cerca di voti, la Cgil firmò un patto con la stessa classe politica nel 1993.
A seguito della disdetta dell’accordo sulla scala mobile da parte della Confindustria, nel luglio 1993 sindacati, imprenditori e governo, Carlo Azeglio Ciampi, presidente del Consiglio, e Gino Giugni, ministro del Lavoro, Bruno Trentin, Sergio D’Antoni, Piero Larizza, Luigi Abete (Confindustria) firmarono l’accordo che ha modificato la struttura del modello contrattuale, istituendo due livelli: nazionale e decentrato. Quello nazionale doveva preservare il potere di acquisto dall’inflazione, quello di secondo livello garantire la totalità della copertura e premiare gli incrementi produttivi.
Peccato che i governi non abbiano mai calmierato i prezzi e le tariffe (obiettivo previsto tramite privatizzazioni e concorrenza) e i contratti aziendali, in un mondo del lavoro italiano dove il 95% del tessuto imprenditoriale è composto da micro-imprese, non siano mai decollati. Il salario variabile vale 2.557 euro, ma spetta solo al 54% dei lavoratori proprio per questo. A seguito di questo scellerato accordo, le imprese non hanno più investito, accontentandosi della rendita garantita da un mercato bloccato all’interno, in assenza di privatizzazioni, e con un costo del lavoro già favorevole alle aziende, a scapito dei lavoratori.
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